Wednesday, September 18, 2013

Raccontare la moda è raccontare il mondo. Ma anche un po' il sogno che quel mondo sta facendo.


Intervento di Antonio Mancinelli, caporedattore di Marie Claire Italia
Antonio Mancinelli
fotografato da Max Majola 

I grandi cambiamenti successivi all'avvento della Rete hanno decisamente modificato il ruolo - ma spero non l'essenza - dell'essere giornalista. Lavorare in una testata, oggi, ha paradossalmente capovolto la situazione dei miei colleghi e anche la mia, visto che lavoro da quasi trent'anni. Ovvero: se in precedenza si andava a "caccia di notizie", adesso sono le notizie a catapultarsi su di te, in una ridda di informazioni o pseudo-informazioni dove il difficile non è la ricerca ma la ricerca di cosa è notizia e cosa è non-notizia. Adesso si vive in un mare magnum di news che dilagano da numerosissime fonti: dai social network agli uffici stampa, dalle aziende agli inserzionisti che, affiancati da smaliziati uffici marketing, propongono spunti che sono interessanti nella teoria, ma si rivelano tragiche "marchette" nella pratica. Ai miei colleghi e a me stesso di vent'anni o trent'anni fa invidio, o meglio provo un po' di nostalgia, la possibilità di approfondimento, di controllare la veridicità delle news con una tempistica più rilassata rispetto ai giorni nostri, dove sembra migliore chi spara lo scoop per primo, chi supera gli altri nel pubblicare la dichiarazione choc, nel fare i recordman dell'informazione. Ma più veloce non significa più affidabile, anzi. Avendo collaborato per 11 anni a "Diario", con Enrico Deaglio, rimpiango l'inchiesta "vecchio stile": quella dove si veniva spediti sul posto dov'era accaduto un fatto e lo si raccontava senza troppo preoccuparsi di quanto tempo ci sarebbe voluto per consegnare l'articolo. Era possibile realizzarla proprio perché il fattore tempo non era così influente mentre lo era l'approssimazione più vicina possibile alla stato delle cose, ovvero: la verità. E questo accadeva in ogni campo, non solo nella cronaca in senso stretto, ma anche nei settori della cultura, dello spettacolo, dello sport, dell'economia. Certo, allora c'erano anche più soldi e i giornali potevano anche permettersi spese per inviare i propri redattori che oggi non sarebbero più sostenibili... E se su qualcuno Twitter ci dice cosa succede nel Nord dell'India, mi rendo conto che la tentazione di crederci è fortissima. Sono più fortunato perché posso fare meno fatica a cercare le notizie: ma è davvero una fortuna? 

Analogico e digitale
Al contrario di molti miei colleghi, ho un atteggiamento assolutamente laico su questo argomento: puntando alla qualità del mio lavoro (nella scrittura, nella veridicità, nell'accuratezza di "riportare" fedelmente una news) non sono più di tanto sconvolto dal cambiamento di ciò che per me è un supporto. Se un quotidiano era autorevole su carta, lo sarà anche online. Se scrivevo bene sul cartaceo, lo farò anche per il nostro sito. Certo, c'è da re-imparare, per noi che non siamo "nativi digitali" un nuovo linguaggio più adatto a chi legge i giornali sul Web o sugli strumenti tecnologici. Ma è la qualità, ripeto, l'obiettivo principale: che poi le mie parole siano stampate su un sostegno materiale o nella volatilità dei byte, non mi preoccupa. E la riprova è che tutti noi tendiamo, ogni giorno, a guardare giornali e blog che riteniamo degni della nostra attenzione, dal "The Daily Beast" al "New York Times" versione web.

Davvero il problema principale è abituare il lettore a pagare per un prodotto immateriale?
Art by Michela Terzi for MtM
No. Il problema è convincere il lettore che, per non leggere "fuffa", deve affidarsi a testate autorevoli. E, come dicevo prima, è impossibile avere autorevolezza senza la spasmodica ricerca della perfezione, o di qualcuno che almeno tenda a essere perfetto. Questo richiede professionalità specifiche, definite, puntuali: professionalità di persone che hanno fatto la gavetta
, che hanno studiato, che hanno esperienza nella materia di cui sono competenti. Ecco, la parola chiave è proprio questa, per me: "competenza". Ma tutto questo non può non avere un prezzo, una quantificazione anche economica, altrimenti si rischia di equiparare un grande critico d'arte al blogger che per hobby scrive di mostre e "spamma" il mondo con i suoi disutili post. Non ho nulla contro i blogger, sia chiaro: Andrew Sullivan, per fare un nome, è diventato una star del giornalismo proprio da quando inaugurò il suo blog. Ma avere tutto per nulla, purtroppo, è un'utopia. Credo che nel futuro ci aspetti un duplice binario: da un'altra parte siti d'informazione con "hard news" - una sorta di agenzie di stampa via web - gratuite- Dall'altra, veri e propri magazine e/o quotidiani (penso a Salon.com) che offrono ricchezza di opinioni e approfondimenti tali da essere degni di essere pagati. Vincerà e farà pagare - in senso letterale - chi offrirà un giornale che rappresenti un ineludibile riferimento. Mi creda, penso che la fidelizzazione del pubblico sia in realtà più facile di quanto si creda. Certo, all'inizio sarà difficile, ma alla lunga sarà l'unica maniera per fare la differenza. La materialità o meno è l'ultimo dei problemi. Basta avere una stampante dignitosa, se si è proprio abituati ad avere un articolo di giornale in mano. 
Credo che siamo passati attraverso tre fasi: all'inizio del Novecento si dovevano "formare" i lettori: persone che, attraverso i giornali abituavano se stessi all'uso corretto della lingua e, allo stesso, a un uso corretto di una visione del mondo. Successivamente, siamo passati all'"informazione": il diritto del lettore era quello di conoscere, di sapere, di apprendere. Io appartengo sicuramente a questa generazione e sono molto fiero di aver traghettato a mio modo, la transizione verso la "condivisione" delle notizie. Mi spiego meglio: quando molti miei articoli vengono postati su marieclaire.it, i commenti dei lettori sono talvolta così esatti e illuminanti da scatenare vere e proprie discussioni dove, alla fine, si arriva a toccare temi che sembrano molto lontani da quello iniziale proposto nell'articolo. È come una bomba: il detonatore è indispensabile, ma oggi noi giornalisti non riusciamo più a capirne la gittata o quali piacevoli effetti causerà. Credo molto in questo piano paritario con chi mi legge: lo trovo stimolante e creativo. Che poi questa evoluzione avvenga sui social network o sui siti dei giornali, mi sembra ininfluente. L'interazione non nega l'articolo iniziale, che deve essere scritto da un giornalista, sia chiaro: ma che, nel corso dei commenti che ne sgorgano si possano creare dei laghetti interattivi di brodo di cultura per nuove idee, perché no? 

Cosa si deve fare per raccontare bene la moda?
Non avere collusioni di nessun tipo con le case di moda o con gli stilisti, prima di tutto! Scherzi a parte: occuparsi e scrivere seriamente di moda, ingiustamente trattata come la Cenerentola del giornalismo, è estremamente complesso. L'industria dell'abbigliamento ha talmente tali e tante ramificazioni che sconfinano nella psicologia, nella sociologia, nell'economia, nella storia, nella cultura, che davvero ne compongono l'anima, per così dire. Raccontare la moda in maniera efficace significa restituire al pubblico lo Zeitgeist di un momento storico, con molta ironia e con molta conoscenza dei fatti. Perché è proprio vero quello che diceva Cecil Beaton: «La moda è lo specchio della società», a cui faceva eco Ennio Flaiano che la definiva «L'oroscopo che la società fa di se stessa». Raccontare la moda è raccontare il mondo. Ma anche un po' il sogno che quel mondo sta facendo.