Piero
Dominici, docente universitario e formatore, esperto di comunicazione
e organizzazioni complesse, si occupa di complessità e teoria dei
sistemi
di Salvatore Dimaggio
di Salvatore Dimaggio
SD: Lei ha a
lungo studiato il tema della gestione della complessità e dei suoi
riflessi sull'etica e sulla produttività. A quali conclusioni l'ha
condotta la sua ricerca?
Alcune
considerazioni preliminari si impongono per lo sviluppo della nostra
riflessione che, evidentemente, non potrà in alcun modo risultare
esaustiva ma - si spera - foriera di spunti e stimoli. Considerata la
complessità e il legame esistente tra i differenti piani di
discorso, proverò a sintetizzare i ragionamenti in punti
problematici. Una scelta che mi auguro possa contribuire alla
chiarezza ed alla semplificazione di questioni che sono tutt’altro
che semplici e banali, come alcuni “superesperti” o “guru”
vorrebbero far credere. Nel quadro generale di un ripensamento
complessivo del rapporto tra teoria e ricerca, tra teoria e prassi
(si alimentano vicendevolmente), credo non si possa non prendere atto
di come la complessità, l’ambivalenza e la rapidità del mutamento
in atto abbiano evidenziato, senza margini di discussione, l’urgenza
di (quanto meno) ripensare il paradigma (1996) e le stesse categorie
concettuali con le quali abbiamo definito e interpretato la realtà
fino ad oggi. La complessità sociale e organizzativa, pur nella
sua particolarità, costituisce sempre un problema di conoscenza e di
gestione della conoscenza (Dominici 2003, 2011), di possibilità
conoscitive che possono essere effettivamente selezionate e
realizzate – mi viene in mente anche la weberiana sezione finita
dell’infinità priva di senso del divenire del mondo. Il dato
di fatto è che non siamo pronti ad affrontare le sfide della
complessità e del nuovo ecosistema, non tanto in termini di
metodologia/e della ricerca (e di strumenti di rilevazione, sempre
più affinati), quanto di modelli teorico interpretativi che devono
guidare/orientare l’osservazione empirica, non soltanto
scientifica, di fenomeni e processi. Ma servono educazione e
formazione alla complessità e una rinnovata consapevolezza rispetto all’esigenza di un approccio
multidisciplinare a questa stessa complessità che implica –
come ho avuto modo di argomentare in tempi non sospetti – una
ridefinizione dello spazio dei saperi e il ribaltamento di quelle
logiche di potere e controllo che, a tutti i livelli, ne hanno
sancito la parcellizzazione e reclusione dentro gli angusti
confini delle discipline; discipline sempre più isolate e incapaci
di comunicare tra di loro, con profonde implicazione anche per
l’esterno delle torri d’avorio; separazioni/steccati disciplinari
– si pensi all’annosa e, per certi versi, incredibile distinzione
tra discipline umanistiche e materie scientifiche, tra formazione
umanistica e formazione scientifica (uno dei motivi del nostro
ritardo culturale che tanti danni produce ancora) – che, non
soltanto ostacolano l’osservazione e la comprensione della realtà
(a livello sociale e delle organizzazioni complesse), la produzione
sociale e la condivisione della conoscenza (architrave del
nuovo ecosistema), ma si rivelano anche non in grado di restituire
quello sguardo d’insieme e quell’ottica globale che gli attuali
processi sociali, politici, culturali richiedono costantemente. In
tal senso, continuo ad esser convinto, e su questo approccio ho
sviluppato le mie ricerche, che l’innovazione tecnologica
costituisca da sempre un fattore strategico di cambiamento dei
sistemi sociali e delle organizzazioni ma che questa, se non
supportata da una cultura della complessità e da politiche di
lungo periodo in grado di innescare e supportare il cambiamento
culturale (centralità strategica di scuola, istruzione, università),
si riveli sempre una straordinaria opportunità per pochi e/o,
per meglio dire, per élite più o meno illuminate. Da questo punto
di vista, per ciò che concerne quella che ho definito la “società
interconnessa”, l’orizzontalità e la democraticità delle
procedure e dei sistemi non possono essere garantite dalla tecnologia
in sé e per sé, dal momento che a fare la differenza sono (e
saranno) sempre il fattore umano e la qualità delle relazioni
sociali e dei legami di interdipendenza, dentro e fuori i
sistemi sociali; dentro e fuori le organizzazioni complesse. Come
scrissi anni fa: ripensare i saperi e lo spazio relazionale, creare
le condizioni necessarie per il cambio di paradigma (1996) e
l’affermazione di quell’approccio multidisciplinare, tante volte
invocato e altrettante completamente disatteso. Temi e questioni di
vitale importanza che non riguardano più soltanto le comunità
scientifiche e che devono essere portare fuori dalle torri d’avorio:
non soltanto perché la sfera pubblica globale preme (si pensi
alle questioni dell’accesso, della trasparenza e, più in
generale, dell’openness), ma anche e soprattutto
perché essa è decisiva per modificare in profondità la
consapevolezza, la percezione e l’accettabilità/legittimazione
sociale di questi fenomeni e dinamiche.
Dopo
questa premessa necessaria, riassumo per punti, quelle che – a mio
avviso – sono “variabili” complesse con le quali siamo
costretti a fare i conti:
A) La (iper)complessità del contesto:
A) La (iper)complessità del contesto:
Sistemi
e organizzazioni complesse devono sempre più confrontarsi e
interagire con ecosistemi caotici e disordinati ma sempre più
interdipendenti e interconnessi, che attraversano un’ulteriore fase
(critica) di evoluzione - non lineare - per differenziazione segnata
dall’avvento dell’economia interconnessa
dell’immateriale (Dominici): un tipo di economia e di
contesto storico-sociale – che ho definito Società
Ipercomplessa (2003-05) - che, al di là delle resistenze,
soprattutto di tipo culturale, stanno costringendo sempre più i
sistemi organizzativi a configurare nuovi modelli e strategie
uniformandosi, almeno in termini di etichetta, ai principi della
trasparenza e dell’accesso e, più in generale, dell’openness
e della condivisione della conoscenza. In tal senso, la
comunicazione (non soltanto quella organizzativa), da “semplice”
strumento di manipolazione, persuasione (più o meno occulta e
responsabile), promozione, reputazione, consenso e costruzione di una
visibilità (paradossalmente) fine a sé stessa, è destinata
progressivamente a diventare e, soprattutto, ad essere riconosciuta
come vero e proprio vettore di trasparenza,
accesso, servizio, condivisione, riduzione della complessità. In
altre parole, fattore strategico di efficienza e non soltanto per
l’immagine e/o la reputazione, il consenso o la vendita.
La comunicazione così intesa – e, peraltro, da sempre definita
“processo sociale di condivisione della conoscenza = potere”
(Dominici, 1996 e sgg.) – richiede una “nuova cultura della
comunicazione” costruita sui destinatari, di
più…costruita/elaborata con i destinatari
(esclusione vs. inclusione), oltre che basata sulla valutazione (che
non significa, solo e soltanto, dati e statistiche); una “nuova
cultura della comunicazione” che implica necessariamente, non
soltanto un ripensamento radicale delle stesse categorie concettuali
di Persona, libertà, dignità, cittadinanza (su cui ci mi sono
espresso in tempi non sospetti, 1998 e sgg.), ma anche, e
soprattutto, la ridefinizione di modelli organizzativi (comunicazione
è organizzazione, complessità, ecosistema) sempre più funzionali
alla collaborazione, alla cooperazione ed alla co-gestione; modelli
antitetici a quelli tradizionali, fondati su gerarchia e
centralizzazione dei processi decisionali e conoscitivi. Tuttavia,
affinché ciò accada (in ogni caso, nel lungo periodo), è
necessario che cambino le mentalità e le culture organizzative, sia
nel pubblico che nel settore privato (educare e formare alla
complessità). Quelle stesse culture organizzative che, spesso,
provano a rallentare, quasi a frenare, la rapidità del mutamento in
atto soprattutto perché non preparate ed adeguatamente formate a
metabolizzare l’innovazione e il cambiamento. E non dobbiamo
mai dimenticare che le organizzazioni, le istituzioni, la stessa
società cercano sempre di mantenere l’ordine, la stabilità,
l’equilibrio ma, per innovare concretamente e innescare dinamiche
evolutive, occorre avere anche il coraggio (oltre, evidentemente,
alle competenze) di mettere in discussione tali condizioni/certezze
raggiunte, anche se rassicuranti per tutti. La formazione continua
(dico sempre: strumento complesso di comunicazione interna) è
strategica anche in tal senso e si configura come “il”
dispositivo in grado di mediare le molteplici forme e modalità del
conflitto organizzativo e sociale. Perché, come ribadito anche in
tempi non sospetti, i processi di innovazione e cambiamento
“camminano sempre sulle gambe delle persone”.
Non
esistono normative, sistemi, procedure ideali in grado di garantire,
comunque e sempre, efficienza, efficacia, controllo (totale),
produttività, correttezza e, soprattutto, rispetto di leggi e norme
culturali condivise: ciò che conta è sempre la loro traduzione
operativa e applicazione.
La
digitalizzazione e le norme giuridiche (rischio di interpretazioni, e
soluzioni, riduzionistiche è alto) possono senz’altro fornire un
contributo importante, per non dire decisivo, ma da sole non sono
sufficienti per ridurre la complessità (efficienza, efficacia,
produttività, clima organizzativo, sicurezza, corruzione etc.) e
gestire l’instabilità delle organizzazioni, dei sistemi sociali e
dei relativi flussi (materiali e immateriali). Ancora una volta, la
centralità dev’essere posta sulla Persona, sulla qualità delle
relazioni, sul capitale umano e sul benessere organizzativo, su
asimmetrie e competenze ma anche, e soprattutto, sulla questione
(ir)responsabilità (2009). In altre parole, sulla “vera”
complessità dei sistemi organizzativi, un tipo
di complessità che, pur caratterizzata da numerose “parti”
interdipendenti, si rivela difficilmente misurabile/quantificabile,
sia per la numerosità delle variabili intervenienti che per
l’imprevedibilità connaturata ai sistemi stessi (cfr. anche il
concetto di razionalità limitata, su cui
abbiamo lavorato molto).
B)
La centralità strategica della comunicazione e l’esigenza di una
nuova “cultura della comunicazione”
L’accresciuta
complessità dei sistemi e il loro differenziarsi, in maniera spesso
autonoma e caotica, generano nuovi bisogni comunicativi, formativi,
organizzativi. La comunicazione non è un “qualcosa” che può
arrivare a valle dei processi e delle dinamiche,
perché la comunicazione si identifica in quegli stessi processi e in
quelle stesse dinamiche. A tal proposito, in passato ho parlato di
“comunicazione del fare” (vs. la “comunicazione del dire”) e
del “potere comunicativo dell’efficienza”, sia a livello di
relazioni interpersonali che di interazioni sistemiche e/o
organizzative. Per queste ragioni, ho proposto la formula
“comunicazione è organizzazione” (1998,2003 e sgg.), ma manca
ancora una consapevolezza diffusa delle implicazioni anche soltanto
di un’affermazione di questo genere; inoltre, in comunicazione
(organizzazione) non si improvvisa e il problema delle competenze
(non soltanto dei comunicatori, ma più in generale dei
manager/dirigenti e dei dipendenti) è talmente evidente da
richiedere – come abbiamo evidenziato più e più volte – una ridefinizione anche dei tradizionali percorsi didattico-formativi,
più specificamente di quelli relativi all’organizzazione della
prassi sociale, della vita pubblica e organizzativa. Percorsi che, da
anni, sono sempre più schiacciati (nella migliore delle ipotesi) su
una formazione esclusivamente “tecnica”, definita e realizzata
sulla base di modelli interpretativi lineari non più adeguati
all’ipercomplessità.
D’altra
parte, efficienza ed efficacia vengono messe sempre più a dura
prova, proprio da quel famoso cambiamento di paradigma che, pur
essendo nominato e discusso da tutti, oltre a non essere stato ancora
compreso e metabolizzato, finisce per essere inscritto, nel dibattito
pubblico, all’interno di un nuovismo acritico
di maniera che impedisce un pensiero “altro” sull’innovazione.
C) La complessità delle organizzazioni e dei sistemi sociali
C) La complessità delle organizzazioni e dei sistemi sociali
Quella
riguardante i sistemi sociali e organizzativi è, peraltro, un tipo
di complessità del tutto particolare e difficilmente riducibile: in
ogni caso, una complessità non riconducibile alla sola applicazione
di formule matematiche e dati (fondamentali, chiariamolo)
inquadrabili dentro un “oggettivismo scientifico” che torna
egemone e contribuisce anch’esso ad alimentare un certo tipo di
conformismo. Dicevo: una complessità particolarmente complessa –
mi scuso per il gioco di parole - in quanto chi la osserva (studia e
analizza) e tenta di comprenderla è allo stesso tempo osservato;
costantemente contamina e viene contaminato dall’ambiente e dal
sistema di relazioni; costantemente co-genera e co-produce i processi
di cui è protagonista (elaborazione di informazioni e condivisione
di conoscenza) e, nel far questo, non si adatta soltanto all’ambiente
di riferimento e/o all’ecosistema ma lo trasforma. Ripenso al
vecchio, ma fondamentale, concetto di “osservazione partecipante”
e partecipata; uno dei tanti concetti della ricerca sociale definiti,
e operazionalizzati, molto tempo fa e oggi
recuperati in tutti i settori della ricerca e della prassi
organizzativa. L’osservazione (partecipante e partecipata) dei
sistemi sociali e organizzativi ci costringe a fare i conti con
l’attivazione di tutta una serie di fattori di condizionamento che
modificano, non soltanto la percezione, ma anche le condizioni
empiriche dell’evento osservato e perfino l’atto stesso
dell’osservare (sia nella ricerca scientifica che nella gestione
delle organizzazioni complesse). Oltretutto, occorre considerare che
tali dinamiche, oltre a manifestarsi sempre in chiave sistemica (ecco
l’importanza di un approccio multidisciplinare e alla complessità)
e ad essere caratterizzate dal venir meno del principio di causalità
(A -> B --- valore probabilistico e statistico delle conoscenze),
si evolvono dentro un sistema di conoscenze sociali
preesistenti.
Sembra scontato dirlo - non è così, anzi spesso si ha
l’impressione che non ci sia sufficiente consapevolezza - ma la
stessa conoscenza scientifica, come qualsiasi attività di ricerca e
innovazione, si sviluppa dentro contesti storico-culturali
determinati che sono essi stessi “fattori” di condizionamento…si
pensi, tra le questioni, alla weberiana impossibilità di una
conoscenza realmente avalutativa della realtà. Eppure è ancora
molto diffusa la convinzione che formazione umanistica e scientifica
possano/debbano essere tenute separate.
E
dobbiamo sempre considerare che, quando parliamo di “sistemi
complessi”, ci stiamo riferendo a sistemi
costituiti da molteplici elementi e variabili, a loro volta
caratterizzati da legami (non facilmente
riconoscibili) e complessi processi di retroazione,
che non è possibile osservare isolandoli dal contesto di
riferimento. Le parti, che costituiscono i sistemi complessi, sono
sempre strettamente interdipendenti ma non è mai così semplice
individuarne i legami e le correlazioni. Questo perché siamo quasi
sempre di fronte a dinamiche instabili, che rendono inefficace
qualsiasi spiegazione deterministica e riduzionistica. Allo stesso
tempo, esistono differenti livelli di descrizione che richiedono
lessico e codici adeguati e pertinenti.
La questione
cruciale della “razionalità limitata”
Parto
da due presupposti che considero fondamentali: 1) gli attori sociali
producendo conoscenza non si limitano ad adattarsi all’ambiente
(sociale e/o organizzativo), bensì contribuiscono a modificarlo e
co-generarlo; 2) qualsiasi tipo di organizzazione si fonda su
processi, cioè su insiemi di attività fra loro logicamente
interconnesse che si identificano sostanzialmente con la gestione,
efficiente ed efficace, dei flussi informativi e conoscitivi.
Tuttavia,
nonostante la notevole disponibilità di dati, informazioni e
(talvolta) conoscenze, i sistemi organizzativi si basano sempre su
una RAZIONALITÀ LIMITATA che è dovuta ad una serie di “variabili”
determinanti:
-
Conoscenza sempre parziale della “catena mezzi-fini”
-
Conoscenza limitata delle alternative – ruolo delle convinzioni preesistenti nelle scelte/decisioni – l’analisi complessiva richiede costi eccessivi
-
Distinzione non chiara tra “mezzi” e “fini”
-
Impossibilità di conoscere tutte le conseguenze delle scelte (problema di ragionevolezza di tempi e costi)
-
Distorsioni nei feedback
-
Le decisioni sono quasi sempre del “gruppo” e sono correlate a processi di cooperazione/competizione/conflitto
-
Presenza di molteplici livelli di ambiguità
L’organizzazione,
come detto, può essere definita come un SISTEMA SOCIALE APERTO* -
basato su un processo di interazione tra le parti - in cui la
conoscenza dell’ambiente (stakeholders, dati, informazioni etc.) è
decisiva per adattarsi al cambiamento, gestirlo e non “esserne
gestiti”. Allo stesso tempo, la creazione di una cultura
organizzativa si configura come l’asset
strategico che consente la definizione di risposte efficaci
all’imprevedibilità e alla vulnerabilità connaturate ai sistemi
stessi, oltre che ai rischi potenziali e reali provenienti
dall’ambiente.
D’altra
parte, siamo di fronte ad un “… sistema adattivo di componenti
fisiche, personali e sociali che sono tenute insieme da una rete di
comunicazioni interpersonali e dalla volontà dei suoi membri di
cooperare per il raggiungimento di un fine comune” (H.A.Simon,1947)
All’interno
di tale complessità, l’attore sociale non è in grado di darsi una
raffigurazione completa della realtà, né di conoscere tutti gli
obiettivi possibili delle sue azioni; né infine di darsi una
rappresentazione di tutti i mezzi possibili per raggiungerli o delle
conseguenze di ciascuna azione.
La condizione
di razionalità limitata è determinata dalle
seguenti “variabili”:
-
complessità dell’ambiente
-
incapacità dell’attore sociale di raccogliere, elaborare e memorizzare tutte le informazioni necessarie
-
impossibilità di prevedere fino in fondo le strategie degli altri
Accade
così che le informazioni utili per la soluzione dei problemi siano
sempre incomplete e confuse con una grande quantità di dati inutili.
Un problema che rischia di radicalizzarsi ulteriormente nella società
interconnessa: la vera sfida - soggetta ad una serie di
limitazioni - si conferma quella legata alla possibilità di
trasformare le informazioni, che consentono l’interpretazione e
l’azione sull’ambiente, in conoscenza.
SD: Quali sono
i principi guida che debbono ispirare un management che voglia
evitare di bloccare tali processi?
Provo
a rispondere al suo quesito, indicando una serie di punti che
considero particolarmente significativi:
-
Le organizzazioni devono configurarsi come sistemi sociali aperti
-
Centralità strategica della comunicazione (che non va confusa con il marketing!), intesa come “processo sociale di condivisione della conoscenza (=potere)”, in cui giocano un ruolo assolutamente decisivo profili psicologici, contesti socioculturali di origine, competenze, asimmetrie informative e conoscitive, qualità delle relazioni e dello spazio relazionale, gestione della conoscenza etc. La comunicazione, permettendo la condivisione delle risorse informative e conoscitive, è il vero “valore aggiunto” delle organizzazioni e dei sistemi dal momento che rende possibile:
a) RIDUZIONE della COMPLESSITÀ (ma, ormai, parliamo di
IPERCOMPLESSITÀ)
b) GESTIONE dell’INCERTEZZA/RISCHIO – ruolo strategico per le
imprese del risk management e del crisis management
c) MEDIAZIONE del CONFLITTO - fuori dal sistema: problema del
controllo e accesso alle risorse (Knowledge Society); dentro il
sistema: problematiche legate all’accesso, gestione, elaborazione,
conservazione e condivisione delle conoscenze e delle competenze
(knowledge management).
-
Comunicazione è organizzazione. Come accennato in precedenza, i sistemi sociali e le organizzazioni complesse – sistemi adattivi caratterizzati da connessioni non lineari e da una notevole varietà di elementi e connessioni - si evolvono per differenziazione non lineare e/o, a certi livelli di complessità, per autopoiesi: questo aumento di complessità genera nuove esigenze comunicative che, a loro volta, definiscono nuovi bisogni organizzativi. La capacità di elaborare e condividere informazioni è fondamentale per l’adattamento all’ambiente e gli eventuali tentativi di trasformarlo. Mi ripeto: la condivisione delle informazioni e della conoscenza si rivela di vitale importanza (ho affrontato tali questioni già nella mia tesi di laurea, per poi approfondirle ulteriormente nel corso del dottorato di ricerca, all’interno del quale ho avuto la fortuna di approfondire tali percorsi di ricerca con studiosi/intellettuali come Franco Ferrarotti ed Edgar Morin). È sulla base di questi presupposti, e delle relative ricerche, che affondano le radici negli studi multidisciplinari sulla complessità e nella teoria dei sistemi, che ho potuto affermare - in tempi non sospetti - comunicazione è organizzazione: non si tratta di dimensioni separate (anzi!) anche se, per certi versi, sembrano quasi richiamare la vecchia dicotomia marxiana tra struttura e sovrastruttura. L’efficienza di un sistema organizzativo è strettamente correlata alla condivisione delle informazioni e delle competenze e costituisce la “forma” più potente di comunicazione che un’organizzazione possa mettere in atto, sia verso l’esterno che all’interno della stessa.
-
Gestione efficiente dei processi e dei canali di comunicazione (processo sociale di condivisione della conoscenza): i “canali” di comunicazione devono essere conosciuti e accessibili a tutte/i
-
Knowledge Management
-
Leadership autorevole e non autoritaria
-
Centralità del capitale umano
-
Centralità del capitale sociale
-
Rilevanza strategica del clima organizzativo e del benessere organizzativo
-
Formazione e aggiornamento continuo: a mio avviso, mi ripeto, il vero “valore aggiunto”, il fattore in grado di determinare un “vantaggio competitivo” di lungo periodo; eppure, nelle maggior parte dei casi, continua ad essere la prima voce tagliata. Paghiamo un ritardo culturale, anche su tali questioni, che è difficile da recuperare e che è fortemente indicativo di un modo di pensare e organizzare, non soltanto il lavoro e le organizzazioni, ma anche le relazioni sociali e la vita pubblica.
Appare evidente come tali “variabili” strategiche possano
essere sviluppate solo a condizione che, soprattutto attraverso la
definizione e condivisione di una cultura organizzativa, si punti
concretamente a riscostruire le reti e i meccanismi sociali della
fiducia e della cooperazione che costituiscono il “collante
sociale” di una comunità (idealtipo, per tanti versi, ideale anche
a livello organizzativo).
SD: Quali
sono, nella sua esperienza, i principali competitive edge, di
un'azienda in grado di assecondare o anche incoraggiare l'osmosi?
Il
presupposto fondamentale da cui muove la nostra riflessione è il
seguente: le organizzazioni sociali sono e vanno pensate/realizzate
come “sistemi sociali aperti”, all’interno dei quali si rivela
di vitale importanza individuare quelle competenze distintive in
grado di determinare/costruire vantaggi competitivi. In tal senso,
continuo a credere che il capitale umano, la formazione e
l’aggiornamento continuo siano quelle più determinanti.
Come
scritto più volte anche in passato: la società della conoscenza
spinge le organizzazioni complesse a configurarsi come “sistemi
sociali aperti” che tentano di governare l’incerto e
l’imprevedibile attraverso la condivisione di una cultura
organizzativa e progettuale, definita ed elaborata all’interno di
quelle reti relazionali intersoggettive esistenti “dentro” i
sistemi organizzativi, ma che sono in un rapporto di osmosi anche con
l’ambiente esterno, e soprattutto con riferimento ai flussi
informativi e conoscitivi (questioni che intercettano il dibattito
riguardante i temi dell’inclusione e dell’open
innovation). Anche nel caso delle organizzazioni (sia semplici
che complesse), la cultura - intesa come insieme di valori, pratiche,
credenze, conoscenze, simboli, modelli condivisi da un
gruppo/comunità - assolve – esattamente come per i sistemi sociali
e le comunità - delle funzioni assolutamente strategiche: dal
controllo sociale alla definizione di (indispensabili) condizioni di
prevedibilità dei comportamenti (p.e. il ruolo è “dispositivo”
che assolve queste funzioni, definendo aspettative e responsabilità
dentro le reti di relazione sociale), dall’accettazione alla
condivisone di un sistema di valori, dall’accettazione alla
condivisione di obiettivi (accettazione e condivisione sono
“oggetti” e processi differenti) etc. Si tratta davvero di un
(necessario) cambio di paradigma culturale (Dominici,1996) che, oltre
a coinvolgere modelli organizzativi e strategie di azione, riguarda
da vicino la qualità delle relazioni sociali e, nello specifico, le
persone (e la questione della responsabilità) con il loro sapere, le
loro competenze ma anche i loro vissuti sociali. La conoscenza
sociale e relazionale (concetto di intersoggettività), prodotta
sempre da un NOI, viene ulteriormente elaborata (e condivisa)
nell’incontro/confronto con l’Altro (persone, colleghi, utenti,
clienti, cittadini, consumatori etc.), qualunque sia la
situazione/contesto. Vengono così a determinarsi, e in maniera quasi
del tutto autonoma, “codici” e modelli di relazionalità
che possono creare le condizioni ideali per un’innovazione
sociale e culturale, in grado di far “metabolizzare” ai sistemi i
cambiamenti in atto; allo stesso tempo – e ciò conferma,
ancora una volta, l’importanza del clima/benessere organizzativo
- si possono anche generare nuove forme e modalità di conflitto
causate proprio da una cattiva o, comunque, poco efficiente gestione
della conoscenza e delle informazioni
(comunicazione-condivisione-cooperazione) che, in ogni caso, può far
nascere sottogruppi o subculture all’interno della stessa
organizzazione/contesto o, peggio ancora, innescare azioni di
resistenza al cambiamento organizzativo, sociale e culturale. La
mia definizione/visione di organizzazione come “sistema sociale
aperto” presenta pertanto diverse affinità con il concetto e le
pratiche di osmosis management.
Per
ciò che concerne, nello specifico, le “competenze distintive” va
ribadito come, oltre ad essere le variabili in grado di determinare
il cd. vantaggio competitivo, siano legate alla capacità di
un’organizzazione di utilizzare le risorse per raggiungere gli
obiettivi strategici definiti; peraltro, si tratta di variabili e
dinamiche sempre più influenzate dalle mutate condizioni dei
contesti di riferimento. In tal senso, si potrebbe ragionare su
differenti strategie e fare un lungo elenco di elementi in grado di
innescare il vantaggio competitivo, ma continuo a credere che il
“capitale umano” e la formazione continua siano quelli più
decisivi, ancor di più nel lungo periodo. In altre parole,
un’organizzazione che intende essere concretamente efficiente, ed
estendere nel tempo questa sua efficienza, oltre che puntare su
innovazione tecnologica (continua) e fattore giuridico, dovrebbe: 1)
valorizzare al massimo le competenze (nel senso più ampio del
termine); 2) promuovere la condivisione delle informazioni e della
conoscenza; 3) promuovere la collaborazione e la cooperazione; 4)
puntare sulla centralità della dimensione sociale e relazionale; 5)
puntare su rafforzamento e implementazione delle reti di fiducia; 6)
organizzare gli spazi in maniera funzionale ad una cultura
organizzativa di questo tipo. Assolutamente strategico – lo
ribadisco - saper riconoscere nella “formazione continua” quello
strumento complesso in grado (anche) di accompagnare questi processi
evolutivi non-lineari e di accrescere la consapevolezza della
complessità e della razionalità limitata che caratterizzano i
sistemi organizzativi (e quelli sociali)
SD: Alcuni popolari servizi digitali come Google e Wikipedia si sono
inseriti ormai fortemente nelle abitudini di information search degli
utenti. Tanto da essere percepiti come erogatori di dati
sostanzialmente affidabili ed utili e, si assume implicitamente,
neutral. Tuttavia, la questione sempre più dibattuta (nel mondo
anglofono, da noi pochissimo) del search bias, mette sempre più in
discussione la gestione che Google fa di questo potere. Allo stesso
tempo la fiducia consolidata nei processi democratici, open ed
orizzontali di fact-checking di Wikipedia viene sempre più incrinata
dalla minaccia di editor prezzolati che manipolano le voci in modo
conforme agli interessi di aziende o gruppi di potere. Quali sfide
pone questa situazione e di quali nuovi strumenti abbiamo bisogno per
decodificare questi scenari?
La
mia risposta ad un interrogativo così delicato potrebbe sembrare
riduttiva, ma non è così, quanto meno nelle intenzioni. Le
dinamiche, cui si fa riferimento nella domanda, sono praticamente
inarrestabili anche nel caso in cui la Politica recuperi un suo ruolo
più centrale: quelli che da più parti sono stati definiti i
“cannibali digitali” (metafora cara anche a McLuhan)
stanno, non da ora, esercitando il loro controllo non soltanto in termini di potere finanziario: la sfida – su cui registro poca
consapevolezza, anche da parte di esperti e guru (?) - è quella di
creare le condizioni affinché tale potere non si traduca anche in
un’egemonia e in una omologazione, di pensiero e cultura, pressoché
totali (a mio avviso, tutto ciò è già in atto). Preso, cioè,
atto delle caratteristiche dei nuovi ecosistemi sociali (1996) e
della ipercomplessità (2000) che li caratterizza, ritengo che la
sfida più importante sia, ancora una volta, quella di abilitare
le persone, i cittadini (non soltanto nella loro veste di
consumatori), a gestire, in maniera quanto più possibile
consapevole e competente, i processi e le dinamiche che
contraddistinguono il nuovo ecosistema. In altre parole, creare le
condizioni “strutturali” affinché sappiano abitare
tali ecosistemi, sappiano abitare quello che di fatto è, non
soltanto un nuovo spazio pubblico illimitato - in grado
di definire identità e soggettività e,
potenzialmente, nuove opportunità di inclusione - , ma anche, e
soprattutto, un Panopticon globale, all’interno del
quale le logiche di controllo e sorveglianza totale erano, sono e
saranno sempre quelle dominanti.
E
come ripeto da anni: per questa ipercomplessità non bastano
“cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati
e informati, educati alla cittadinanza e non alla sudditanza…per
abitudine culturale; cittadini in possesso di competenze non soltanto
tecniche e/o digitali ma, soprattutto, educati e formati alla
complessità e al “pensiero critico”; educati e formati a
comprendere l’importanza della condivisione e della cooperazione
per poter superare concretamente le vecchie logiche di possesso e
controllo: perché condivisione e cooperazione sono essenziali
nella produzione (sociale e collettiva) di conoscenza e cultura, i
veri motori dell’innovazione; e devono essere educati e formati
anche al “sapere condiviso”(2000), non tanto perché
questi presupposti - a mio avviso strategici, vitali -
rappresentano la “nuova utopia” da inseguire, quanto perché
– ed è incredibile come, a tutti i livelli, ancora non ci sia
consapevolezza e unità d’intenti – sono l’economia della
condivisione (1998) e la società della conoscenza a richiedere
elevati livelli di istruzione (dati e ricerche su
analfabetismo funzionale e povertà educativa restituiscono un quadro
tutt’altro che rassicurante, e la cosa che mi fa più impressione è
che ne parlavo quasi vent’anni fa…) e formazione,
oltre ad un aggiornamento continuo in ambito lavorativo e
professionale. A tal proposito, di recente, anche qualche
tecno-entusiasta – etichetta per indicare i moderni
“integrati” – inizia finalmente a rendersi conto che la
questione più complicata da risolvere è quella culturale (e non
mi riferisco soltanto al tema del cultural divide) e concerne
le asimmetrie informative e conoscitive; al contrario, le
infrastrutture che, ripetiamolo, sono assolutamente necessarie e il
digital divide, con un piano di investimenti all’altezza,
sono criticità significative ma che, prima o poi, avranno una
soluzione. In tal senso, una cittadinanza “vera”, attiva e
partecipe del bene comune e, più in generale, il cambiamento
culturale profondo sono sempre il prodotto complesso, da una parte,
di processi e meccanismi sociali che devono partire dal
basso; dall’altra, dell’azione di quella società
civile e di quella sfera pubblica, attualmente assorbite e fagocitate
da una politica che ha tolto loro autonomia (qualche anno fa parlai
di “sfera pubblica ancella del sistema di potere”). Servono
politiche (lungo periodo) che, oltre ad essere immaginate in
un’ottica globale, vanno progettate e realizzate con una
prospettiva sistemica, per poi essere costantemente valutate e
monitorate nei loro effetti. Dimensioni completamente disattese,
basti pensare p.e. all’assenza di una “vera” politica
industriale nel nostro Paese. L’innovazione è processo
complesso, anzi è complessità: istruzione, educazione,
formazione – evidentemente - ne devono essere gli “assi
portanti”, non un qualcosa che arriva “a valle” dei processi di
mutamento. Altrimenti, serviranno a poco anche le tecnologie più
innovative e sofisticate, le piattaforme partecipative e le stesse
dinamiche (concretamente) inclusive, attivate da élite (più o meno
illuminate), gruppi di potere e da una Pubblica Amministrazione –
questa la speranza e l’auspicio – divenuta, nel frattempo, più
trasparente ed efficiente. I rischi – come dico sempre –
rimangono quelli di un’innovazione tecnologica senza cultura e di
una cittadinanza/democrazia senza cittadini.
SD: Come giudica il dibattito sui Big Data? La dialettica tra le
voci che sollevano dubbi sulla validità scientifica di questo
paradigma, sino alla famosa asserzione di Chris Anderson che li
vedeva come "the end of theory" e gli autori che ne hanno
intensamente studiato le dinamiche e le caratteristiche, a cosa ci ha
condotto?
Ho
la netta sensazione che, anche in questo caso, si tratti di un
dibattito ancora distante da quell’analisi metodologicamente
rigorosa ed, evidentemente, multidisciplinare di cui avremmo urgente
bisogno: anche sui BIG Data tornano gli “apocalittici” e gli
“integrati”, tornano tutte quelle argomentazioni aprioristiche
che non contemplano posizioni intermedie, magari fondate
sull’esperienza e la ricerca. Da una parte coloro che vedono nei
Big Data la nuova utopia, dall’altra coloro che vi riconoscono
soltanto rischi e pericoli. Ciò che appare evidente sono le enormi
potenzialità dei Big Data per ciò che riguarda la ricerca e lo
sviluppo tecnologico: la criticità principale è legata al fatto che
non abbiamo ancora compreso come tenere insieme queste straordinarie
potenzialità con il rispetto di alcuni diritti fondamentali della
persona. Notevoli le implicazioni da valutare, oltre che per la
ricerca scientifica e il decisore politico, anche per ciò che
concerne il quadro di riferimento giuridico. Una cosa è certa: i
dati non parlano mai da soli, è il ricercatore a farli parlare, ad
attribuirgli uno o più significati sulla base delle correlazioni
possibili e di eventuali nessi di causalità. Occorre prestare molta
attenzione alle retoriche ed alle narrazioni che puntualmente si
sviluppano nel dibattito pubblico e che tendono soltanto a
semplificare argomenti che semplici non sono.
Dietro
alla questione dei Big Data, torna anche il “vecchio”, ma sempre
attuale, tema della razionalità – si tratta sempre di una
razionalità limitata - nelle scelte e nelle decisioni, non
soltanto a livello organizzativo. Consapevole dell’importanza di
avere disponibilità di una quantità infinita di dati e,
soprattutto, di essere in grado di analizzarli ed elaborarli con le
finalità più differenti, continuo a ritenere cruciali
soprattutto le questioni legate alla capacità di comprendere
fino in fondo e organizzare sistematicamente la mole infinita di
informazioni contenute in questo tipo di complessità. Tuttavia,
la “vera” rivoluzione dei Big Data è legata alle nuove
opportunità di analizzarli e tradurne le evidenze in decisioni da
prendersi in un tempo ragionevole. Esiste evidentemente un
problema cruciale di come riorganizzare i processi automatici di
scelta delle notizie e delle informazioni che possono tradursi in
conoscenza. Ma, ripeto, le implicazioni di tipo etico sono
notevoli: dall’esigenza di controbilanciare il
potere delle grandi corporation del digitale alle problematiche
riguardanti privacy e protezione dei dati personali; dalla proprietà
allo sfruttamento dei dati, dalla trasparenza all’eccesso di
controllo. La Società Interconnessa (2014) deve ripartire anche
da queste rinnovate consapevolezze.
Piero Dominici
(PhD) Docente universitario e
formatore, insegna Comunicazione
pubblica e
Sociologia della
devianza presso
l’Università degli studi di Perugia. Membro dell’Albo dei
Revisori MIUR, fa parte di Comitati scientifici nazionali e
internazionali. Si occupa da vent’anni di teoria dei sistemi e di
teoria della complessità con particolare riferimento alle
organizzazioni complesse ed alle tematiche riguardanti cittadinanza,
democrazia, etica pubblica. Svolge attività di ricerca, formazione e
consulenza presso organizzazioni pubbliche e private. Ha partecipato,
e tuttora partecipa, a progetti di rilevanza nazionale e
internazionale, con funzioni di coordinamento. Relatore a convegni
internazionali, collabora con riviste scientifiche e di cultura.
Autore di numerosi saggi e pubblicazioni scientifiche, tra le quali:
Per un’etica dei
new-media (1998);
La comunicazione
nella società ipercomplessa.Istanze per l’agire comunicativo
(2005); La
società dell’irresponsabilità
(2010); La
comunicazione nella società ipercomplessa. Condividere la conoscenza
per governare il mutamento (2011);
Dentro la Società
interconnessa. Prospettive etiche per un nuovo ecosistema della
comunicazione (2014).