Tuesday, November 3, 2015

Ipercomplessità ed etica

Piero Dominici, docente universitario e formatore, esperto di comunicazione e organizzazioni complesse, si occupa di complessità e teoria dei sistemi

di Salvatore Dimaggio

SD: Lei ha a lungo studiato il tema della gestione della complessità e dei suoi riflessi sull'etica e sulla produttività. A quali conclusioni l'ha condotta la sua ricerca?
Alcune considerazioni preliminari si impongono per lo sviluppo della nostra riflessione che, evidentemente, non potrà in alcun modo risultare esaustiva ma - si spera - foriera di spunti e stimoli. Considerata la complessità e il legame esistente tra i differenti piani di discorso, proverò a sintetizzare i ragionamenti in punti problematici. Una scelta che mi auguro possa contribuire alla chiarezza ed alla semplificazione di questioni che sono tutt’altro che semplici e banali, come alcuni “superesperti” o “guru” vorrebbero far credere. Nel quadro generale di un ripensamento complessivo del rapporto tra teoria e ricerca, tra teoria e prassi (si alimentano vicendevolmente), credo non si possa non prendere atto di come la complessità, l’ambivalenza e la rapidità del mutamento in atto abbiano evidenziato, senza margini di discussione, l’urgenza di (quanto meno) ripensare il paradigma (1996) e le stesse categorie concettuali con le quali abbiamo definito e interpretato la realtà fino ad oggi. La complessità sociale e organizzativa, pur nella sua particolarità, costituisce sempre un problema di conoscenza e di gestione della conoscenza (Dominici 2003, 2011), di possibilità conoscitive che possono essere effettivamente selezionate e realizzate – mi viene in mente anche la weberiana sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo. Il dato di fatto è che non siamo pronti ad affrontare le sfide della complessità e del nuovo ecosistema, non tanto in termini di metodologia/e della ricerca (e di strumenti di rilevazione, sempre più affinati), quanto di modelli teorico interpretativi che devono guidare/orientare l’osservazione empirica, non soltanto scientifica, di fenomeni e processi. Ma servono educazione e formazione alla complessità e una rinnovata consapevolezza rispetto all’esigenza di un approccio multidisciplinare a questa stessa complessità che implica – come ho avuto modo di argomentare in tempi non sospetti – una ridefinizione dello spazio dei saperi e il ribaltamento di quelle logiche di potere e controllo che, a tutti i livelli, ne hanno sancito la parcellizzazione e reclusione dentro gli angusti confini delle discipline; discipline sempre più isolate e incapaci di comunicare tra di loro, con profonde implicazione anche per l’esterno delle torri d’avorio; separazioni/steccati disciplinari – si pensi all’annosa e, per certi versi, incredibile distinzione tra discipline umanistiche e materie scientifiche, tra formazione umanistica e formazione scientifica (uno dei motivi del nostro ritardo culturale che tanti danni produce ancora) – che, non soltanto ostacolano l’osservazione e la comprensione della realtà (a livello sociale e delle organizzazioni complesse), la produzione sociale e la condivisione della conoscenza (architrave del nuovo ecosistema), ma si rivelano anche non in grado di restituire quello sguardo d’insieme e quell’ottica globale che gli attuali processi sociali, politici, culturali richiedono costantemente. In tal senso, continuo ad esser convinto, e su questo approccio ho sviluppato le mie ricerche, che l’innovazione tecnologica costituisca da sempre un fattore strategico di cambiamento dei sistemi sociali e delle organizzazioni ma che questa, se non supportata da una cultura della complessità e da politiche di lungo periodo in grado di innescare e supportare il cambiamento culturale (centralità strategica di scuola, istruzione, università), si riveli sempre una straordinaria opportunità per pochi e/o, per meglio dire, per élite più o meno illuminate. Da questo punto di vista, per ciò che concerne quella che ho definito la “società interconnessa”, l’orizzontalità e la democraticità delle procedure e dei sistemi non possono essere garantite dalla tecnologia in sé e per sé, dal momento che a fare la differenza sono (e saranno) sempre il fattore umano e la qualità delle relazioni sociali e dei legami di interdipendenza, dentro e fuori i sistemi sociali; dentro e fuori le organizzazioni complesse. Come scrissi anni fa: ripensare i saperi e lo spazio relazionale, creare le condizioni necessarie per il cambio di paradigma (1996) e l’affermazione di quell’approccio multidisciplinare, tante volte invocato e altrettante completamente disatteso. Temi e questioni di vitale importanza che non riguardano più soltanto le comunità scientifiche e che devono essere portare fuori dalle torri d’avorio: non soltanto perché la sfera pubblica globale preme (si pensi alle questioni dell’accesso, della trasparenza e, più in generale, dell’openness), ma anche e soprattutto perché essa è decisiva per modificare in profondità la consapevolezza, la percezione e l’accettabilità/legittimazione sociale di questi fenomeni e dinamiche.
Dopo questa premessa necessaria, riassumo per punti, quelle che – a mio avviso – sono “variabili” complesse con le quali siamo costretti a fare i conti:

A) La (iper)complessità del contesto:
Sistemi e organizzazioni complesse devono sempre più confrontarsi e interagire con ecosistemi caotici e disordinati ma sempre più interdipendenti e interconnessi, che attraversano un’ulteriore fase (critica) di evoluzione - non lineare - per differenziazione segnata dall’avvento dell’economia interconnessa dell’immateriale (Dominici): un tipo di economia e di contesto storico-sociale – che ho definito Società Ipercomplessa (2003-05) - che, al di là delle resistenze, soprattutto di tipo culturale, stanno costringendo sempre più i sistemi organizzativi a configurare nuovi modelli e strategie uniformandosi, almeno in termini di etichetta, ai principi della trasparenza e dell’accesso e, più in generale, dell’openness e della condivisione della conoscenza. In tal senso, la comunicazione (non soltanto quella organizzativa), da “semplice” strumento di manipolazione, persuasione (più o meno occulta e responsabile), promozione, reputazione, consenso e costruzione di una visibilità (paradossalmente) fine a sé stessa, è destinata progressivamente a diventare e, soprattutto, ad essere riconosciuta come vero e proprio vettore di trasparenza, accesso, servizio, condivisione, riduzione della complessità. In altre parole, fattore strategico di efficienza e non soltanto per l’immagine e/o la reputazione, il consenso o la vendita.
La comunicazione così intesa – e, peraltro, da sempre definita “processo sociale di condivisione della conoscenza = potere” (Dominici, 1996 e sgg.) – richiede una “nuova cultura della comunicazione” costruita sui destinatari, di più…costruita/elaborata con i destinatari (esclusione vs. inclusione), oltre che basata sulla valutazione (che non significa, solo e soltanto, dati e statistiche); una “nuova cultura della comunicazione” che implica necessariamente, non soltanto un ripensamento radicale delle stesse categorie concettuali di Persona, libertà, dignità, cittadinanza (su cui ci mi sono espresso in tempi non sospetti, 1998 e sgg.), ma anche, e soprattutto, la ridefinizione di modelli organizzativi (comunicazione è organizzazione, complessità, ecosistema) sempre più funzionali alla collaborazione, alla cooperazione ed alla co-gestione; modelli antitetici a quelli tradizionali, fondati su gerarchia e centralizzazione dei processi decisionali e conoscitivi. Tuttavia, affinché ciò accada (in ogni caso, nel lungo periodo), è necessario che cambino le mentalità e le culture organizzative, sia nel pubblico che nel settore privato (educare e formare alla complessità). Quelle stesse culture organizzative che, spesso, provano a rallentare, quasi a frenare, la rapidità del mutamento in atto soprattutto perché non preparate ed adeguatamente formate a metabolizzare l’innovazione e il cambiamento. E non dobbiamo mai dimenticare che le organizzazioni, le istituzioni, la stessa società cercano sempre di mantenere l’ordine, la stabilità, l’equilibrio ma, per innovare concretamente e innescare dinamiche evolutive, occorre avere anche il coraggio (oltre, evidentemente, alle competenze) di mettere in discussione tali condizioni/certezze raggiunte, anche se rassicuranti per tutti. La formazione continua (dico sempre: strumento complesso di comunicazione interna) è strategica anche in tal senso e si configura come “il” dispositivo in grado di mediare le molteplici forme e modalità del conflitto organizzativo e sociale. Perché, come ribadito anche in tempi non sospetti, i processi di innovazione e cambiamento “camminano sempre sulle gambe delle persone”.
Non esistono normative, sistemi, procedure ideali in grado di garantire, comunque e sempre, efficienza, efficacia, controllo (totale), produttività, correttezza e, soprattutto, rispetto di leggi e norme culturali condivise: ciò che conta è sempre la loro traduzione operativa e applicazione.
La digitalizzazione e le norme giuridiche (rischio di interpretazioni, e soluzioni, riduzionistiche è alto) possono senz’altro fornire un contributo importante, per non dire decisivo, ma da sole non sono sufficienti per ridurre la complessità (efficienza, efficacia, produttività, clima organizzativo, sicurezza, corruzione etc.) e gestire l’instabilità delle organizzazioni, dei sistemi sociali e dei relativi flussi (materiali e immateriali). Ancora una volta, la centralità dev’essere posta sulla Persona, sulla qualità delle relazioni, sul capitale umano e sul benessere organizzativo, su asimmetrie e competenze ma anche, e soprattutto, sulla questione (ir)responsabilità (2009). In altre parole, sulla “vera” complessità dei sistemi organizzativi, un tipo di complessità che, pur caratterizzata da numerose “parti” interdipendenti, si rivela difficilmente misurabile/quantificabile, sia per la numerosità delle variabili intervenienti che per l’imprevedibilità connaturata ai sistemi stessi (cfr. anche il concetto di razionalità limitata, su cui abbiamo lavorato molto).


B) La centralità strategica della comunicazione e l’esigenza di una nuova “cultura della comunicazione”
L’accresciuta complessità dei sistemi e il loro differenziarsi, in maniera spesso autonoma e caotica, generano nuovi bisogni comunicativi, formativi, organizzativi. La comunicazione non è un “qualcosa” che può arrivare a valle dei processi e delle dinamiche, perché la comunicazione si identifica in quegli stessi processi e in quelle stesse dinamiche. A tal proposito, in passato ho parlato di “comunicazione del fare” (vs. la “comunicazione del dire”) e del “potere comunicativo dell’efficienza”, sia a livello di relazioni interpersonali che di interazioni sistemiche e/o organizzative. Per queste ragioni, ho proposto la formula “comunicazione è organizzazione” (1998,2003 e sgg.), ma manca ancora una consapevolezza diffusa delle implicazioni anche soltanto di un’affermazione di questo genere; inoltre, in comunicazione (organizzazione) non si improvvisa e il problema delle competenze (non soltanto dei comunicatori, ma più in generale dei manager/dirigenti e dei dipendenti) è talmente evidente da richiedere – come abbiamo evidenziato più e più volte – una ridefinizione anche dei tradizionali percorsi didattico-formativi, più specificamente di quelli relativi all’organizzazione della prassi sociale, della vita pubblica e organizzativa. Percorsi che, da anni, sono sempre più schiacciati (nella migliore delle ipotesi) su una formazione esclusivamente “tecnica”, definita e realizzata sulla base di modelli interpretativi lineari non più adeguati all’ipercomplessità.
D’altra parte, efficienza ed efficacia vengono messe sempre più a dura prova, proprio da quel famoso cambiamento di paradigma che, pur essendo nominato e discusso da tutti, oltre a non essere stato ancora compreso e metabolizzato, finisce per essere inscritto, nel dibattito pubblico, all’interno di un nuovismo acritico di maniera che impedisce un pensiero “altro” sull’innovazione.


C) La complessità delle organizzazioni e dei sistemi sociali
Quella riguardante i sistemi sociali e organizzativi è, peraltro, un tipo di complessità del tutto particolare e difficilmente riducibile: in ogni caso, una complessità non riconducibile alla sola applicazione di formule matematiche e dati (fondamentali, chiariamolo) inquadrabili dentro un “oggettivismo scientifico” che torna egemone e contribuisce anch’esso ad alimentare un certo tipo di conformismo. Dicevo: una complessità particolarmente complessa – mi scuso per il gioco di parole - in quanto chi la osserva (studia e analizza) e tenta di comprenderla è allo stesso tempo osservato; costantemente contamina e viene contaminato dall’ambiente e dal sistema di relazioni; costantemente co-genera e co-produce i processi di cui è protagonista (elaborazione di informazioni e condivisione di conoscenza) e, nel far questo, non si adatta soltanto all’ambiente di riferimento e/o all’ecosistema ma lo trasforma. Ripenso al vecchio, ma fondamentale, concetto di “osservazione partecipante” e partecipata; uno dei tanti concetti della ricerca sociale definiti, e operazionalizzati, molto tempo fa e oggi recuperati in tutti i settori della ricerca e della prassi organizzativa. L’osservazione (partecipante e partecipata) dei sistemi sociali e organizzativi ci costringe a fare i conti con l’attivazione di tutta una serie di fattori di condizionamento che modificano, non soltanto la percezione, ma anche le condizioni empiriche dell’evento osservato e perfino l’atto stesso dell’osservare (sia nella ricerca scientifica che nella gestione delle organizzazioni complesse). Oltretutto, occorre considerare che tali dinamiche, oltre a manifestarsi sempre in chiave sistemica (ecco l’importanza di un approccio multidisciplinare e alla complessità) e ad essere caratterizzate dal venir meno del principio di causalità (A -> B --- valore probabilistico e statistico delle conoscenze), si evolvono dentro un sistema di conoscenze sociali preesistenti.
Sembra scontato dirlo - non è così, anzi spesso si ha l’impressione che non ci sia sufficiente consapevolezza - ma la stessa conoscenza scientifica, come qualsiasi attività di ricerca e innovazione, si sviluppa dentro contesti storico-culturali determinati che sono essi stessi “fattori” di condizionamento…si pensi, tra le questioni, alla weberiana impossibilità di una conoscenza realmente avalutativa della realtà. Eppure è ancora molto diffusa la convinzione che formazione umanistica e scientifica possano/debbano essere tenute separate.
E dobbiamo sempre considerare che, quando parliamo di “sistemi complessi”, ci stiamo riferendo a sistemi costituiti da molteplici elementi e variabili, a loro volta caratterizzati da legami (non facilmente riconoscibili) e complessi processi di retroazione, che non è possibile osservare isolandoli dal contesto di riferimento. Le parti, che costituiscono i sistemi complessi, sono sempre strettamente interdipendenti ma non è mai così semplice individuarne i legami e le correlazioni. Questo perché siamo quasi sempre di fronte a dinamiche instabili, che rendono inefficace qualsiasi spiegazione deterministica e riduzionistica. Allo stesso tempo, esistono differenti livelli di descrizione che richiedono lessico e codici adeguati e pertinenti.
La questione cruciale della “razionalità limitata”
Parto da due presupposti che considero fondamentali: 1) gli attori sociali producendo conoscenza non si limitano ad adattarsi all’ambiente (sociale e/o organizzativo), bensì contribuiscono a modificarlo e co-generarlo; 2) qualsiasi tipo di organizzazione si fonda su processi, cioè su insiemi di attività fra loro logicamente interconnesse che si identificano sostanzialmente con la gestione, efficiente ed efficace, dei flussi informativi e conoscitivi.
Tuttavia, nonostante la notevole disponibilità di dati, informazioni e (talvolta) conoscenze, i sistemi organizzativi si basano sempre su una RAZIONALITÀ LIMITATA che è dovuta ad una serie di “variabili” determinanti:
  • Conoscenza sempre parziale della “catena mezzi-fini”
  • Conoscenza limitata delle alternative – ruolo delle convinzioni preesistenti nelle scelte/decisioni – l’analisi complessiva richiede costi eccessivi
  • Distinzione non chiara tra “mezzi” e “fini”
  • Impossibilità di conoscere tutte le conseguenze delle scelte (problema di ragionevolezza di tempi e costi)
  • Distorsioni nei feedback
  • Le decisioni sono quasi sempre del “gruppo” e sono correlate a processi di cooperazione/competizione/conflitto
  • Presenza di molteplici livelli di ambiguità
L’organizzazione, come detto, può essere definita come un SISTEMA SOCIALE APERTO* - basato su un processo di interazione tra le parti - in cui la conoscenza dell’ambiente (stakeholders, dati, informazioni etc.) è decisiva per adattarsi al cambiamento, gestirlo e non “esserne gestiti”. Allo stesso tempo, la creazione di una cultura organizzativa si configura come l’asset strategico che consente la definizione di risposte efficaci all’imprevedibilità e alla vulnerabilità connaturate ai sistemi stessi, oltre che ai rischi potenziali e reali provenienti dall’ambiente.
D’altra parte, siamo di fronte ad un “… sistema adattivo di componenti fisiche, personali e sociali che sono tenute insieme da una rete di comunicazioni interpersonali e dalla volontà dei suoi membri di cooperare per il raggiungimento di un fine comune” (H.A.Simon,1947)
All’interno di tale complessità, l’attore sociale non è in grado di darsi una raffigurazione completa della realtà, né di conoscere tutti gli obiettivi possibili delle sue azioni; né infine di darsi una rappresentazione di tutti i mezzi possibili per raggiungerli o delle conseguenze di ciascuna azione.
La condizione di razionalità limitata è determinata dalle seguenti “variabili”:
  • complessità dell’ambiente
  • incapacità dell’attore sociale di raccogliere, elaborare e memorizzare tutte le informazioni necessarie
  • impossibilità di prevedere fino in fondo le strategie degli altri

Accade così che le informazioni utili per la soluzione dei problemi siano sempre incomplete e confuse con una grande quantità di dati inutili. Un problema che rischia di radicalizzarsi ulteriormente nella società interconnessa: la vera sfida - soggetta ad una serie di limitazioni - si conferma quella legata alla possibilità di trasformare le informazioni, che consentono l’interpretazione e l’azione sull’ambiente, in conoscenza.




SD: Quali sono i principi guida che debbono ispirare un management che voglia evitare di bloccare tali processi?
Provo a rispondere al suo quesito, indicando una serie di punti che considero particolarmente significativi:
  • Le organizzazioni devono configurarsi come sistemi sociali aperti
  • Centralità strategica della comunicazione (che non va confusa con il marketing!), intesa come “processo sociale di condivisione della conoscenza (=potere)”, in cui giocano un ruolo assolutamente decisivo profili psicologici, contesti socioculturali di origine, competenze, asimmetrie informative e conoscitive, qualità delle relazioni e dello spazio relazionale, gestione della conoscenza etc. La comunicazione, permettendo la condivisione delle risorse informative e conoscitive, è il vero “valore aggiunto” delle organizzazioni e dei sistemi dal momento che rende possibile:
a) RIDUZIONE della COMPLESSITÀ (ma, ormai, parliamo di IPERCOMPLESSITÀ)
b) GESTIONE dell’INCERTEZZA/RISCHIO – ruolo strategico per le imprese del risk management e del crisis management
c) MEDIAZIONE del CONFLITTO - fuori dal sistema: problema del controllo e accesso alle risorse (Knowledge Society); dentro il sistema: problematiche legate all’accesso, gestione, elaborazione, conservazione e condivisione delle conoscenze e delle competenze (knowledge management).
  • Comunicazione è organizzazione. Come accennato in precedenza, i sistemi sociali e le organizzazioni complesse – sistemi adattivi caratterizzati da connessioni non lineari e da una notevole varietà di elementi e connessioni - si evolvono per differenziazione non lineare e/o, a certi livelli di complessità, per autopoiesi: questo aumento di complessità genera nuove esigenze comunicative che, a loro volta, definiscono nuovi bisogni organizzativi. La capacità di elaborare e condividere informazioni è fondamentale per l’adattamento all’ambiente e gli eventuali tentativi di trasformarlo. Mi ripeto: la condivisione delle informazioni e della conoscenza si rivela di vitale importanza (ho affrontato tali questioni già nella mia tesi di laurea, per poi approfondirle ulteriormente nel corso del dottorato di ricerca, all’interno del quale ho avuto la fortuna di approfondire tali percorsi di ricerca con studiosi/intellettuali come Franco Ferrarotti ed Edgar Morin). È sulla base di questi presupposti, e delle relative ricerche, che affondano le radici negli studi multidisciplinari sulla complessità e nella teoria dei sistemi, che ho potuto affermare - in tempi non sospetti - comunicazione è organizzazione: non si tratta di dimensioni separate (anzi!) anche se, per certi versi, sembrano quasi richiamare la vecchia dicotomia marxiana tra struttura e sovrastruttura. L’efficienza di un sistema organizzativo è strettamente correlata alla condivisione delle informazioni e delle competenze e costituisce la “forma” più potente di comunicazione che un’organizzazione possa mettere in atto, sia verso l’esterno che all’interno della stessa.
  • Gestione efficiente dei processi e dei canali di comunicazione (processo sociale di condivisione della conoscenza): i “canali” di comunicazione devono essere conosciuti e accessibili a tutte/i
  • Knowledge Management
  • Leadership autorevole e non autoritaria
  • Centralità del capitale umano
  • Centralità del capitale sociale
  • Rilevanza strategica del clima organizzativo e del benessere organizzativo
  • Formazione e aggiornamento continuo: a mio avviso, mi ripeto, il vero “valore aggiunto”, il fattore in grado di determinare un “vantaggio competitivo” di lungo periodo; eppure, nelle maggior parte dei casi, continua ad essere la prima voce tagliata. Paghiamo un ritardo culturale, anche su tali questioni, che è difficile da recuperare e che è fortemente indicativo di un modo di pensare e organizzare, non soltanto il lavoro e le organizzazioni, ma anche le relazioni sociali e la vita pubblica.
Appare evidente come tali “variabili” strategiche possano essere sviluppate solo a condizione che, soprattutto attraverso la definizione e condivisione di una cultura organizzativa, si punti concretamente a riscostruire le reti e i meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione che costituiscono il “collante sociale” di una comunità (idealtipo, per tanti versi, ideale anche a livello organizzativo).




SD:  Quali sono, nella sua esperienza, i principali competitive edge, di un'azienda in grado di assecondare o anche incoraggiare l'osmosi?
Il presupposto fondamentale da cui muove la nostra riflessione è il seguente: le organizzazioni sociali sono e vanno pensate/realizzate come “sistemi sociali aperti”, all’interno dei quali si rivela di vitale importanza individuare quelle competenze distintive in grado di determinare/costruire vantaggi competitivi. In tal senso, continuo a credere che il capitale umano, la formazione e l’aggiornamento continuo siano quelle più determinanti.
Come scritto più volte anche in passato: la società della conoscenza spinge le organizzazioni complesse a configurarsi come “sistemi sociali aperti” che tentano di governare l’incerto e l’imprevedibile attraverso la condivisione di una cultura organizzativa e progettuale, definita ed elaborata all’interno di quelle reti relazionali intersoggettive esistenti “dentro” i sistemi organizzativi, ma che sono in un rapporto di osmosi anche con l’ambiente esterno, e soprattutto con riferimento ai flussi informativi e conoscitivi (questioni che intercettano il dibattito riguardante i temi dell’inclusione e dell’open innovation). Anche nel caso delle organizzazioni (sia semplici che complesse), la cultura - intesa come insieme di valori, pratiche, credenze, conoscenze, simboli, modelli condivisi da un gruppo/comunità - assolve – esattamente come per i sistemi sociali e le comunità - delle funzioni assolutamente strategiche: dal controllo sociale alla definizione di (indispensabili) condizioni di prevedibilità dei comportamenti (p.e. il ruolo è “dispositivo” che assolve queste funzioni, definendo aspettative e responsabilità dentro le reti di relazione sociale), dall’accettazione alla condivisone di un sistema di valori, dall’accettazione alla condivisione di obiettivi (accettazione e condivisione sono “oggetti” e processi differenti) etc. Si tratta davvero di un (necessario) cambio di paradigma culturale (Dominici,1996) che, oltre a coinvolgere modelli organizzativi e strategie di azione, riguarda da vicino la qualità delle relazioni sociali e, nello specifico, le persone (e la questione della responsabilità) con il loro sapere, le loro competenze ma anche i loro vissuti sociali. La conoscenza sociale e relazionale (concetto di intersoggettività), prodotta sempre da un NOI, viene ulteriormente elaborata (e condivisa) nell’incontro/confronto con l’Altro (persone, colleghi, utenti, clienti, cittadini, consumatori etc.), qualunque sia la situazione/contesto. Vengono così a determinarsi, e in maniera quasi del tutto autonoma, “codici” e modelli di relazionalità che possono creare le condizioni ideali per un’innovazione sociale e culturale, in grado di far “metabolizzare” ai sistemi i cambiamenti in atto; allo stesso tempo – e ciò conferma, ancora una volta, l’importanza del clima/benessere organizzativo - si possono anche generare nuove forme e modalità di conflitto causate proprio da una cattiva o, comunque, poco efficiente gestione della conoscenza e delle informazioni (comunicazione-condivisione-cooperazione) che, in ogni caso, può far nascere sottogruppi o subculture all’interno della stessa organizzazione/contesto o, peggio ancora, innescare azioni di resistenza al cambiamento organizzativo, sociale e culturale. La mia definizione/visione di organizzazione come “sistema sociale aperto” presenta pertanto diverse affinità con il concetto e le pratiche di osmosis management.


Per ciò che concerne, nello specifico, le “competenze distintive” va ribadito come, oltre ad essere le variabili in grado di determinare il cd. vantaggio competitivo, siano legate alla capacità di un’organizzazione di utilizzare le risorse per raggiungere gli obiettivi strategici definiti; peraltro, si tratta di variabili e dinamiche sempre più influenzate dalle mutate condizioni dei contesti di riferimento. In tal senso, si potrebbe ragionare su differenti strategie e fare un lungo elenco di elementi in grado di innescare il vantaggio competitivo, ma continuo a credere che il “capitale umano” e la formazione continua siano quelli più decisivi, ancor di più nel lungo periodo. In altre parole, un’organizzazione che intende essere concretamente efficiente, ed estendere nel tempo questa sua efficienza, oltre che puntare su innovazione tecnologica (continua) e fattore giuridico, dovrebbe: 1) valorizzare al massimo le competenze (nel senso più ampio del termine); 2) promuovere la condivisione delle informazioni e della conoscenza; 3) promuovere la collaborazione e la cooperazione; 4) puntare sulla centralità della dimensione sociale e relazionale; 5) puntare su rafforzamento e implementazione delle reti di fiducia; 6) organizzare gli spazi in maniera funzionale ad una cultura organizzativa di questo tipo. Assolutamente strategico – lo ribadisco - saper riconoscere nella “formazione continua” quello strumento complesso in grado (anche) di accompagnare questi processi evolutivi non-lineari e di accrescere la consapevolezza della complessità e della razionalità limitata che caratterizzano i sistemi organizzativi (e quelli sociali)



SD: Alcuni popolari servizi digitali come Google e Wikipedia si sono inseriti ormai fortemente nelle abitudini di information search degli utenti. Tanto da essere percepiti come erogatori di dati sostanzialmente affidabili ed utili e, si assume implicitamente, neutral. Tuttavia, la questione sempre più dibattuta (nel mondo anglofono, da noi pochissimo) del search bias, mette sempre più in discussione la gestione che Google fa di questo potere. Allo stesso tempo la fiducia consolidata nei processi democratici, open ed orizzontali di fact-checking di Wikipedia viene sempre più incrinata dalla minaccia di editor prezzolati che manipolano le voci in modo conforme agli interessi di aziende o gruppi di potere. Quali sfide pone questa situazione e di quali nuovi strumenti abbiamo bisogno per decodificare questi scenari?
La mia risposta ad un interrogativo così delicato potrebbe sembrare riduttiva, ma non è così, quanto meno nelle intenzioni. Le dinamiche, cui si fa riferimento nella domanda, sono praticamente inarrestabili anche nel caso in cui la Politica recuperi un suo ruolo più centrale: quelli che da più parti sono stati definiti i “cannibali digitali” (metafora cara anche a McLuhan) stanno, non da ora, esercitando il loro controllo non soltanto in  termini di potere finanziario: la sfida – su cui registro poca consapevolezza, anche da parte di esperti e guru (?) - è quella di creare le condizioni affinché tale potere non si traduca anche in un’egemonia e in una omologazione, di pensiero e cultura, pressoché totali (a mio avviso, tutto ciò è già in atto). Preso, cioè, atto delle caratteristiche dei nuovi ecosistemi sociali (1996) e della ipercomplessità (2000) che li caratterizza, ritengo che la sfida più importante sia, ancora una volta, quella di abilitare le persone, i cittadini (non soltanto nella loro veste di consumatori), a gestire, in maniera quanto più possibile consapevole e competente, i processi e le dinamiche che contraddistinguono il nuovo ecosistema. In altre parole, creare le condizioni “strutturali” affinché sappiano abitare tali ecosistemi, sappiano abitare quello che di fatto è, non soltanto un nuovo spazio pubblico illimitato - in grado di definire identità e soggettività e, potenzialmente, nuove opportunità di inclusione - , ma anche, e soprattutto, un Panopticon globale, all’interno del quale le logiche di controllo e sorveglianza totale erano, sono e saranno sempre quelle dominanti.
E come ripeto da anni: per questa ipercomplessità non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati alla cittadinanza e non alla sudditanza…per abitudine culturale; cittadini in possesso di competenze non soltanto tecniche e/o digitali ma, soprattutto, educati e formati alla complessità e al “pensiero critico”; educati e formati a comprendere l’importanza della condivisione e della cooperazione per poter superare concretamente le vecchie logiche di possesso e controllo: perché condivisione e cooperazione sono essenziali nella produzione (sociale e collettiva) di conoscenza e cultura, i veri motori dell’innovazione; e devono essere educati e formati anche al “sapere condiviso”(2000), non tanto perché questi presupposti - a mio avviso strategici, vitali - rappresentano la “nuova utopia” da inseguire, quanto perché – ed è incredibile come, a tutti i livelli, ancora non ci sia consapevolezza e unità d’intenti – sono l’economia della condivisione (1998) e la società della conoscenza a richiedere elevati livelli di istruzione (dati e ricerche su analfabetismo funzionale e povertà educativa restituiscono un quadro tutt’altro che rassicurante, e la cosa che mi fa più impressione è che ne parlavo quasi vent’anni fa…) e formazione, oltre ad un aggiornamento continuo in ambito lavorativo e professionale. A tal proposito, di recente, anche qualche tecno-entusiasta – etichetta per indicare i moderni “integrati” – inizia finalmente a rendersi conto che la questione più complicata da risolvere è quella culturale (e non mi riferisco soltanto al tema del cultural divide) e concerne le asimmetrie informative e conoscitive; al contrario, le infrastrutture che, ripetiamolo, sono assolutamente necessarie e il digital divide, con un piano di investimenti all’altezza, sono criticità significative ma che, prima o poi, avranno una soluzione. In tal senso, una cittadinanza “vera”, attiva e partecipe del bene comune e, più in generale, il cambiamento culturale profondo sono sempre il prodotto complesso, da una parte, di processi e meccanismi sociali che devono partire dal basso; dall’altra, dell’azione di quella società civile e di quella sfera pubblica, attualmente assorbite e fagocitate da una politica che ha tolto loro autonomia (qualche anno fa parlai di “sfera pubblica ancella del sistema di potere”). Servono politiche (lungo periodo) che, oltre ad essere immaginate in un’ottica globale, vanno progettate e realizzate con una prospettiva sistemica, per poi essere costantemente valutate e monitorate nei loro effetti. Dimensioni completamente disattese, basti pensare p.e. all’assenza di una “vera” politica industriale nel nostro Paese. L’innovazione è processo complesso, anzi è complessità: istruzione, educazione, formazione – evidentemente - ne devono essere gli “assi portanti”, non un qualcosa che arriva “a valle” dei processi di mutamento. Altrimenti, serviranno a poco anche le tecnologie più innovative e sofisticate, le piattaforme partecipative e le stesse dinamiche (concretamente) inclusive, attivate da élite (più o meno illuminate), gruppi di potere e da una Pubblica Amministrazione – questa la speranza e l’auspicio – divenuta, nel frattempo, più trasparente ed efficiente. I rischi – come dico sempre – rimangono quelli di un’innovazione tecnologica senza cultura e di una cittadinanza/democrazia senza cittadini.


SD: Come giudica il dibattito sui Big Data? La dialettica tra le voci che sollevano dubbi sulla validità scientifica di questo paradigma, sino alla famosa asserzione di Chris Anderson che li vedeva come "the end of theory" e gli autori che ne hanno intensamente studiato le dinamiche e le caratteristiche, a cosa ci ha condotto?



Ho la netta sensazione che, anche in questo caso, si tratti di un dibattito ancora distante da quell’analisi metodologicamente rigorosa ed, evidentemente, multidisciplinare di cui avremmo urgente bisogno: anche sui BIG Data tornano gli “apocalittici” e gli “integrati”, tornano tutte quelle argomentazioni aprioristiche che non contemplano posizioni intermedie, magari fondate sull’esperienza e la ricerca. Da una parte coloro che vedono nei Big Data la nuova utopia, dall’altra coloro che vi riconoscono soltanto rischi e pericoli. Ciò che appare evidente sono le enormi potenzialità dei Big Data per ciò che riguarda la ricerca e lo sviluppo tecnologico: la criticità principale è legata al fatto che non abbiamo ancora compreso come tenere insieme queste straordinarie potenzialità con il rispetto di alcuni diritti fondamentali della persona. Notevoli le implicazioni da valutare, oltre che per la ricerca scientifica e il decisore politico, anche per ciò che concerne il quadro di riferimento giuridico. Una cosa è certa: i dati non parlano mai da soli, è il ricercatore a farli parlare, ad attribuirgli uno o più significati sulla base delle correlazioni possibili e di eventuali nessi di causalità. Occorre prestare molta attenzione alle retoriche ed alle narrazioni che puntualmente si sviluppano nel dibattito pubblico e che tendono soltanto a semplificare argomenti che semplici non sono.
Dietro alla questione dei Big Data, torna anche il “vecchio”, ma sempre attuale, tema della razionalità – si tratta sempre di una razionalità limitata - nelle scelte e nelle decisioni, non soltanto a livello organizzativo. Consapevole dell’importanza di avere disponibilità di una quantità infinita di dati e, soprattutto, di essere in grado di analizzarli ed elaborarli con le finalità più differenti, continuo a ritenere cruciali soprattutto le questioni legate alla capacità di comprendere fino in fondo e organizzare sistematicamente la mole infinita di informazioni contenute in questo tipo di complessità. Tuttavia, la “vera” rivoluzione dei Big Data è legata alle nuove opportunità di analizzarli e tradurne le evidenze in decisioni da prendersi in un tempo ragionevole. Esiste evidentemente un problema cruciale di come riorganizzare i processi automatici di scelta delle notizie e delle informazioni che possono tradursi in conoscenza. Ma, ripeto, le implicazioni di tipo etico sono notevoli: dall’esigenza di controbilanciare il potere delle grandi corporation del digitale alle problematiche riguardanti privacy e protezione dei dati personali; dalla proprietà allo sfruttamento dei dati, dalla trasparenza all’eccesso di controllo. La Società Interconnessa (2014) deve ripartire anche da queste rinnovate consapevolezze.



Piero Dominici
(PhD) Docente universitario e formatore, insegna Comunicazione pubblica e Sociologia della devianza presso l’Università degli studi di Perugia. Membro dell’Albo dei Revisori MIUR, fa parte di Comitati scientifici nazionali e internazionali. Si occupa da vent’anni di teoria dei sistemi e di teoria della complessità con particolare riferimento alle organizzazioni complesse ed alle tematiche riguardanti cittadinanza, democrazia, etica pubblica. Svolge attività di ricerca, formazione e consulenza presso organizzazioni pubbliche e private. Ha partecipato, e tuttora partecipa, a progetti di rilevanza nazionale e internazionale, con funzioni di coordinamento. Relatore a convegni internazionali, collabora con riviste scientifiche e di cultura. Autore di numerosi saggi e pubblicazioni scientifiche, tra le quali: Per un’etica dei new-media (1998); La comunicazione nella società ipercomplessa.Istanze per l’agire comunicativo (2005); La società dell’irresponsabilità (2010); La comunicazione nella società ipercomplessa. Condividere la conoscenza per governare il mutamento (2011); Dentro la Società interconnessa. Prospettive etiche per un nuovo ecosistema della comunicazione (2014).



Tuesday, October 13, 2015

Osmosi: come sfruttare le innumerevoli opportunità offerte da processi irrituali.

Per decenni nella promozione di un prodotto o servizio, pubblicitari e venditori hanno utilizzato l'aggettivo “esclusivo”. Un prodotto esclusivo è attraente, desiderabile, poterlo acquisire è una fortuna e, certamente, sarà un vantaggio per lo status sociale di chi lo possiede. Eppure, se ci riflettiamo un istante, poche parole sono odiose come “esclusivo”. In un certo senso si può dire che la generica formula “meccanismo di esclusione” sintetizzi tutte quelle pratiche che oggi, con sempre maggior vigore, la società sente di dover avversare ed eliminare. La parola esclusivo e tutto il mondo di significati e valori che si porta dietro, è destinata ad una fortuna sempre minore a favore del concetto opposto: l'inclusività. 

Nel sentire comune l'inclusività è un valore, ma nell'ambito aziendale è spesso percepita come il forzato e, sostanzialmente antieconomico, inserimento in una struttura produttiva, di elementi che una prassi conforme al buon senso, terrebbe alla larga. Qualcosa di non molto diverso da un regalo che si elargisce a chi è meno fortunato. L'inclusione sarebbe, dunque, una scelta che premia l'etica, ma danneggia la produzione. Chi viene inserito in un'azienda in forza di un'ottica inclusiva, trova un lavoro, ma non la soddisfazione di essere utile e produttivo. 

Ancor più importante, il concetto di inclusività è solitamente ridotto a dinamiche che coinvolgono poche categorie chiaramente identificate come penalizzate (donne, diversamente abili, omosessuali, etc.) come se, eccezion fatta per gli appartenenti a queste categorie, la circolazione di individui ed idee nella vita di un'azienda fosse perfettamente fluida. L'inclusione e l'esclusione non riguardano poche categorie discriminate, al contrario, sono una filosofia di vita, un'abitudine di pensiero che si applica ad ogni aspetto della vita di un'azienda. La prassi della chiusura o quella dell'apertura, della discriminazione o non discriminazione, sono estremamente pervasive e finiscono per impregnare tutte le dinamiche che coinvolgono sia le persone che le idee o risorse. 

In natura vi è un processo chiamato osmosi che fa sì che un sistema permeabile, naturalmente attragga le sostanze delle quali abbia una concentrazione troppo bassa. Al contrario, membrane impermeabili impediscono a questo processo spontaneo di compensare naturalmente le carenze e le eccessive concentrazioni di sostanze. Anche nel mondo animale osserviamo stimolanti casi di flussi osmotici. Il caso più noto ed interessante lo cita Zygmunt Bauman: le vespe di Panama. Le vespe di Panama cambiano alveare con grande facilità: quando un alveare ha un esubero o una carenza di individui, un flusso assolutamente spontaneo di vespe compensa questo stato di cose. Nota Bauman come nessuna vespa regina coordini ciò e come le vespe che giungono nel nuovo alveare siano immediatamente integrate senza alcuna discriminazione.

Anche nella società umana accade qualcosa di simile: le persone e le idee circolano e si influenzano a vicenda e non come evento diretto e preordinato da qualche autorità, ma come fenomeno del tutto spontaneo. Tuttavia l'apparato gerarchico e l'organizzazione produttiva di un'azienda possono determinare chiusura e diffidenza verso questi processi naturali. E' ovviamente indispensabile che un'azienda abbia una sua organizzazione produttiva, tuttavia, paradossalmente, questo può determinare il pesante costo di bloccare processi spontanei di circolazione di idee e relazioni che, proprio per un'impresa, sarebbero profondamente utili. Negli ultimi decenni, un numero sempre maggiore di studi ha sottolineato da prospettive e con intenti diversi, come la spontaneità, l'irritualità dei processi che potremmo definire osmotici, ha una grande utilità per aumentare l'efficacia dell'azienda.   Un'impresa deve avere pareti che ne sostengano il soffitto, ma deve allo stesso tempo impegnarsi a far sì che queste pareti siano “pareti permeabili”  cioè che non blocchino quei soggetti ed idee atipiche ed estranee  rispetto alla struttura e le proprie prassi consolidate che spontaneamente entrerebbero nella propria orbita. Non discriminare individui, idee, relazioni, situazioni è, come vedremo, non solo una pratica etica, ma anche estremamente utile. Adoperarsi per rimuovere tutte le membrane impermeabili che si oppongano a questa osmosi è, dunque, indispensabile. 


Produzione collaborativa

Nel libro Wikinomics: How Mass Collaboration Changes Everything, gli autori teorizzano un nuovo modello economico del quale Wikipedia ed il progetto genoma umano sarebbero solo gli esempi più noti. Gli autori riprendono la Legge di Coase (un'azienda tenderà ad espandersi fino a quando il costo di organizzare una transazione in più all'interno dell'azienda eguaglia il costo della medesima operazione sul mercato) e sostengono che con i costi di comunicazione e scambio di dati praticamente azzerati dal web, si moltiplicano i casi nei quali “diffondere” ed aprire la produzione all'esterno è vantaggioso. Il libro cita molti interessanti case history al riguardo che dimostrano come una produzione “diffusa” sia spesso la scelta vincente, tuttavia un'azienda che non ha nel proprio DNA l'abitudine a guardarsi intorno ed ad essere sempre sensibile e reattiva alle persone e le idee che si muovono all'esterno di essa, sarà materialmente impossibilitata a cogliere queste opportunità. 


Ponti insospettabili

Nell'ormai celebre articolo “La forza dei legami deboli” Granovotter spiegava come sia possibile che ogni individuo sia connesso ad ogni altro sul pianeta da soli sei gradi di separazione. Lo strumento che consente al mondo delle relazioni interpersonali di essere così “piccolo” sono i legami deboli. I legami forti (quelli con i parenti e gli amici e colleghi più cari) sono umanamente importanti, ma quasi inutili sul piano dell'estensione della propria rete di relazioni. I legami forti formano microtribù chiuse. Se viene meno un legame forte ciò non cambia quasi nulla nel proprio network, infatti si potranno raggiungere le medesime persone tramite altri legami (se vien meno il legame con un individuo appartenente alla cerchia dei miei amici più cari, io non perdo il legame con tutti i suoi amici, perché saranno quasi tutti anche amici miei). Nelle microtribù dei legami forti, per andare dalla persona A a quella B ci saranno più vie, ragion per cui nessuna è indispensabile e tutte son ridondanti. I legami deboli (quelli di semplice conoscenza) ci legano con mondi lontani: se perdo il legame con il mio compagno d'università straniero, perdo irrimediabilmente tutto quell'universo di legami a cui lui mi connetteva. Ecco perché sono i legami deboli a rendere le reti estese. Granovotter nel suo articolo  dimostrava che tra un soggetto che ha prevalenza di legami forti ed uno che ha prevalenza di legami deboli, paradossalmente ha più probabilità di trovare lavoro il secondo. I suoi tanti legami deboli rendono la sua rete particolarmente estesa e lo pongono a pochi gradi di separazione dal suo potenziale datore di lavoro. E' importante rendersi conto che un discorso simile vale per le aziende. Un'azienda con pareti impermeabili, che cura solo i rapporti indispensabili (clienti principali, soliti fornitori, partner consolidati) ed inibisce quelli con soggetti apparentemente ininfluenti, si autoesilia dal caotico ma fertile flusso del business, aumentando i gradi di separazione che la connettono a potenziali clienti e talenti utili. Anche per questo motivo, rimuovere le barriere impermeabili che bloccano l'osmosi discriminando i rapporti sulla base un un presunto efficientismo, è vitale. 



L'osmosi all'interno del gruppo e nei gruppi fluidi 


Un aspetto molto rilevante di questa analisi riguarda la cosiddetta intelligenza collettiva.  E' ormai noto che l'intelligenza collettiva “C” di un gruppo non deriva dalla sommatoria dell'intelligenza individuale “IQ” dei singoli membri. Secondo gli psicologi del MIT, Carnegie Mellon, e Union College, gruppi assumono un carattere proprio che è distinta dalle singole nature dei loro membri.  Un'impressionante mole di studi  di questi ricercatori a cercato di individuare quali siano i paramatri in grado di determinare la “C” di un gruppo. Dimensioni della squadra, premi e punizioni ed altri parametri simili contavano assai poco. Imprevedibilmente c'è un test che può prevedere la “C”, ecco qual è. Si mostrano ad un soggetto le foto degli occhi di alcune persone e gli si chiede quale sia il loro stato d'animo. I gruppi i cui membri eccellono in questo test hanno la C più alta. In definitiva la C è soprattutto influenzata dalla capacità di essere sensibili all'altro. I ricercatori sostengono che c'è un modo ancora più semplice per predire il valore di C ed è osservare le riunioni: i gruppi nei quali tutti parlano sostanzialmente per lo stesso tempo, hanno una C molto più elevata di quelli nei quali due o tre parlano quasi tutto il tempo. Anche in questo caso la discriminazione sulla base dell'importanza in azienda o magari solo dell'arroganza, si rivelano perdenti rispetto ad un approccio che non trascura nessuno. E' utile notare come il medesimo principio valga anche in quei gruppi “occasionali” nei quali uomini dell'azienda si trovino ad interloquire o a collaborare con  chi vi è esterno. Se si evitano polarizzazioni “noi-voi” questi gruppi saranno più efficienti nell'attività al momento svolta e nel creare legami proficui per il futuro.


Misurare il livello osmotico di un'azienda

Tutti questi studi sono molto suggestivi ed utili, ma è possibile misurare e quantificare quanto un'azienda riesca a valorizzare l'empatia tra i suoi uomini? La cura ad ogni tipo di relazione? La capacità di guardarsi intorno senza pregiudizi alla ricerca di nuove impreviste opportunità? Lungi dall'essere un concetto astratto, è possibile misurare quanto un'azienda riesca ad essere osmotica tra le sue varie parti e con l'ambiente esterno, ovverosia ad evitare ogni abito mentale ed ogni pratica discriminatoria di persone, idee, rapporti ed occasioni.
Quantificare questo parametro può essere utile per capire quanto il management riesca a sfruttare le opportunità impreviste ed “irregolari” offerte dall'ambiente e quanto facilmente le informazioni ed i profili circolino nell'azienda.
Per misurare il livello osmotico di un'azienda occorre valutare, in un orizzonte temporale dato, quale percentuale dei processi vitali della stessa sia avvenuto per vie che possiamo classificare come osmotiche. 

- L'acquisizione dei talenti è avvenuta rigorosamente tramite selezioni o head hunter, oppure si sono colte e valorizzate professionalità di qualità incontrate per vie irrituali?
- I nuovi clienti sono giunti all'azienda necessariamente tramite l'advertising o il passaparola con altri clienti, oppure anche tramite contatti sociali informali?
-  La presenza sui social network, è unicamente affidata ai post dei social media manager sui profili aziendali, oppure dell'azienda parlano e postano i dipendenti, i loro amici, persone che hanno avuto contatti informali con l'azienda o che abitualmente la frequentano?
- Le decisioni sono state prese seguendo vie rigorosamente gerarchiche o sono in parte provenute da ambiti dell'azienda o addirittura esterni ad essa, non istituzionalmente deputati a generarle?

Friday, September 18, 2015

Parenting evolves just as all other aspects of society and humanity evolve.


Peggy Drexler, Ph.D.
Assistant Professor of Psychology in Psychiatry, Weill Cornell Medical College, author of two books about modern families. Contributor to WSJ, Time, Forbes, CNN, HuffPo, Psychology Today, and the Daily Beast.

A life-long interest in how children are affected and shaped by their relationships with the men and women in their families: what did you find in this long journey?

Through my many years of work I’ve explored how early associations with family members—moms, dads, but other important figures as well—impact how people grow to live, work, and love; how content they become as adults and how they find that contentment. I’ve learned a lot, along the way, about the role my parents played in my own development, and applied much of what I learned through my research to my own life as I became a parent myself. I know first hand how easy it can be to compare yourself as a parent to everyone else, and your children to everyone else’s. I know how hard it can be to trust your gut, and yet how very essential.

For a long time it is argued that the family is in a transition phase.
Do you believe that this transition will never have an end, or the concept of family is destined to remain fluid and magmatic?

I do think that the concept of family will necessarily change with the time. Right now, men are spending more time parenting than any generation before them. More mothers work outside the home. It seems that parental equality, in which each parent contributes equally to the domestic and familial duties—which is what we’re heading towards; we’re not quite there yet—is the most ideal arrangement but it’s impossible to know exactly what families will need in the future or what the next “modern family” will look like. In recent years, there has been a huge shift in women’s and men’s social roles and the elasticity of gender roles and innovative ways to have children and create families and I imagine that will continue, and continue to impact parenting. Parenting evolves just as all other aspects of society and humanity evolve.

Cognitive behavioral therapy has been a remarkable revolution in the theory and practice of psychology. Why, in your opinion, in the common way of thinking, the Freudian ideas are still so prevalent?

Freud's ideas about examining the impact the unconscious mind has on our emotions and actions, and of connecting the past to the present, are still relevant. Many people can find tools they need to approach their life after they’ve thoroughly examined their personal history. This is relevant in  clinical research  work I do when I look at how a person’s childhood impacted how they live their life, how they view things and people, as adults. Much of how people behave is driven by the unconscious—and that’s something Freud talked about—but these days we do tend to focus on how to manage the behavior.

You speak of psychology in an understandable way, through some of the most important media in the world. 
What it is more important, for you, to communicate to people?

I like to write about issues that impact modern parents in a relatable way, by sharing stories of other parents who have faced some of the same issues they’re facing, offering some explanation of why an issue happens or why it matters, and laying out some useful points of advice. I like to emphasize that there is no one-size-fits-all approach to parenting—and so my advice won’t work for every single situation—but that the most important thing about parenting is empathy for your child, learning to trust your instincts and know your children on an individual level.

Arianna Huffington wrote about your latest book: "Our Fathers, Ourselves will give you a whole new understanding of the man you call Dad - or the man your children call Dad.” Many people in America have read and loved this book, what did you want to send through it?

I set out to write Our Fathers, Ourselves” after finding very little research on the subject of daughters and fathers. I found that despite the evolution of women’s and men’s social roles, the father-daughter bond—whether strong and nurturing or broken or nonexistent—still holds an enormous sway over women, no matter their age. No matter how much their fathers may have disappointed or even hurt them, all the women I met while researching the book felt a measure of loyalty and gratitude to their fathers, and expressed their eagerness to stay connected to the men who were among the first loves in their lives. Fathers matter a great deal not only in childhood but well into a woman’s adult life. And yet few women are truly aware of the ways in which their fathers impact them.

Monday, June 8, 2015

I grandi trend digitali da accogliere nella propria struttura per essere competitivi


Intervento di Anna Di Silverio, General Manager Avanade Italia (joint venture Microsoft e Accenture).

Azienda ed innovazione
Avanade è molto focalizzata sulla tema dell’innovazione, che da un’analisi fatta risulta essere per il 72% delle aziende una delle tre priorità. Siamo un’azienda innovativa, che si impegna a guidare e interpretare i trend per creare valore per i propri clienti. Infatti, in Avanade è presente l’Innovation Group, un gruppo internazionale ma con presenza locale costituito da risorse di alto profilo e interamente dedicate allo sviluppo dell’innovazione.  Il gruppo ha come obiettivo quello di osservare le tendenze tecnologiche, farle proprie su soluzioni ritagliate in base alle esigenze dei nostri clienti. Tenendo in considerazione questi ultimi, all’interno di un mercato competitivo ed in continua evoluzione, questo team ha come scopo quello di aiutarli a costruire una roadmap di innovazione attraverso due strade: gli Innovation workshop, dedicati a questi temi specifici, e gli Innovation Day, incontri di innovazione tecnologica. Ad esempio, con un grande istituto bancario, abbiamo collaborato per progettare degli scenari avveniristici per costruire e disegnare assieme una nuova esperienza per il cliente, al fine di migliorarne la relazione, attraverso strumenti come PixelSense (ex Microsoft Surface) o tablet Windows 8, con cui un promotore finanziario può interagire in modo nuovo con la propria clientela. O ancora per una grossa compagnia aerea che opera su scala globale, abbiamo ridisegnato i processi di vendita a bordo dei prodotti duty-free, permettendo agli assistenti di bordo di mostrare i prodotti, e poterli vendere attraverso gli smartphone. Avanade, inoltre, è molto attenta nel coinvolgere i propri dipendenti su questa tematica: ci impegniamo affinché la creatività e lo spirito innovativo di tutti possano emergere attraverso iniziative globali e locali. Per portare un esempio pratico, durante il prossimo Tech Summit a Redmond - l’evento internazionale di Avanade in cui vengono presentate le novità tecnologiche e le ultime soluzioni per i clienti - verranno annunciati i vincitori dell’Innovation Contest, un concorso globale volto a scoprire le idee più innovative proposte internamente all’azienda.

Il percorso personale
Il mio percorso professionale è iniziato nel 1988 con una breve esperienza come ricercatrice in ambito networking architecture presso il dipartimento di Informatica dell’Università di Pisa, ma l’esperienza più formativa per la mia carriera è stata con
Microsoft, dove ho seguito un percorso di crescita da ruoli tecnici nella divisione servizi fino a coprire la responsabilità di Direttore di Microsoft Services. Sono quindi passata nelle vendite dopo aver ricoperto il ruolo di Direttore del Public Sector.
Art by Michela Terzi for MtM
Nel 2008 sono passata in Hp, dove ho ricoperto il ruolo di Country Manager della Business Unit Technology Services. Nel settembre 2010 l’approdo in Avanade, in qualità di Amministratore Delegato per l’area IGEM, che include la responsabilità di Italia, Europa dell’Est e Paesi del Medio Oriente. Attualmente, sono anche responsabile del mercato Products a livello Global.
Essere a capo di una realtà giovane e con respiro internazionale come Avanade è per me motivo di grande orgoglio.

Le specificità riscontrate in Italia
La nostra dimensione multinazionale ci consente di giovarci sia degli investimenti tecnologici realizzati centralmente, sia delle esperienze costruite insieme ai nostri clienti mondiali più innovativi. Nel contempo, però, la nostra forte localizzazione in Italia ci permette di individuare l’approccio e le offerte più consone alle caratteristiche del mercato italiano. In particolare ci paiono rilevanti due peculiarità del nostro mercato rispetto a molti degli altri Paesi:
1. Tessuto industriale frammentato, con una diffusa presenza di realtà medie a gestione e valori padronali (nel senso buono del termine). Ciò si traduce nella spasmodica ricerca di soluzioni, progetti, innovazioni che trovino un loro evidente valore aggiunto e un ritorno dell’investimento in tempi brevi e certi.
2. Elevata esigenza relazionale della clientela, la quale comporta che l’ineludibile passaggio in ogni industry verso canali diretti debba essere temperato da una strategia multicanale, che preveda l’interazione con la clientela in maniera integrata tra canali online ed offline, con il conseguente utilizzo di una pluralità di canali.
In questo scenario Avanade ha deciso di creare aree di forte specializzazione per industry in modo da essere molto efficace nel garantire l’impegno su progetti IT a forte connotazione di business, al fine di avere ritorni di valore in tempi brevi. Ad esempio, la capacità di offrire soluzioni ERP e CRM della suite Dynamics di Microsoft, flessibili, facili da usare e veloci da installare, combinata all’esperienza di industry e alle verticalizzazioni per i singoli mercati, ci consente di ridurre i tempi di conseguimento dei risultati e i rischi progettuali.

L'evoluzione della relazione delle aziende con il digitale
Direi che è un binomio quasi imprescindibile al giorno d’oggi: le aziende che non riescono a costruire un rapporto produttivo attraverso il digitale sono destinate a non essere innovative. Avanade considera il digitale parte attiva e integrante del cambiamento tecnologico: non solo incentiviamo l’utilizzo di nuove tecnologie ma siamo anche i primi a provarle e utilizzarle. Grazie a dispositivi come smartphone, tablet e pc, oggi è possibile notare una notevole flessibilità nelle modalità di lavoro, che può essere svolto everytime e everywhere, sempre e dovunque.  
Anna Di Silverio
A livello generale, le aziende sono digitali da quando esistono i computer, ma ciò che è cambiato enormemente nel corso del tempo è il concetto di connessione. Oggi i dispositivi sono largamente e maggiormente connessi così come tutto il resto: le persone sono connesse, i sistemi sono connessi. Anche se l’Italia è il Paese europeo che ha registrato l’incremento maggiore di connessioni a banda larga da un semestre all’altro (+9.5%), stabilizzandosi al 28%, il nostro Paese resta tuttavia al penultimo posto in Europa, seguito solo dalla Turchia; è chiaro che la competitività e l’innovatività delle aziende Italiane avverrà attraverso la loro capacità di sfruttare al meglio le risorse digitali interconnesse.  Le quattro grandi tendenze che abbiamo evidenziato (Mobility, Cloud, Big Data e Social) sottolineano fortemente questo nuovo modo di affrontare il digitale:  la crescita delle aziende dipenderà da come esse riusciranno a cogliere proficuamente questi trend al loro interno e a trasformarli in un valore positivo. 

Elementi di forza dell'Italia nell'ambito dell'IT
Uno su tutti: nonostante il periodo economico non facile, la situazione italiana è sotto gli occhi di tutti, l’Italia sta continuando a investire nell’IT, anche se con percentuali in decrescita rispetto agli anni scorsi. Ciò su cui è importante soffermarci, tuttavia, è che questi investimenti sono maggiormente focalizzati verso soluzioni innovative e distintive che possano fare la differenza. Le aziende stanno finalmente cominciando a capire che gli investimenti in quest’area sono investimenti a lungo termine, misurabili con diversi parametri.  

Il prossimo passo da compiere per rendere le aziende italiane più competitive
Rischiare di più, non essere troppo statici. Se vogliamo essere più competitivi dobbiamo essere più innovativi e puntare al mercato internazionale. Dovremmo investire nella ricerca e nello sviluppo per differenziarci dai competitor. Non dobbiamo sederci sugli allori, ma aggiornarci continuamente e fare in modo di ridurre la cosiddetta “fuga dei cervelli”.

Saturday, May 30, 2015

Il consumatore ha un potere mai avuto in precedenza.


Intervento di Roberto Pedretti, Amministratore Delegato di Nielsen.

L'azienda e l'innovazione
Nielsen sta conoscendo una fase di grande innovazione che affronta con il lancio di nuovi sistemi di misurazione del comportamento dei consumatori per garantire ai propri clienti risposte certe, all’interno di uno scenario in continuo mutamento. La disponibilità di strumenti in grado di misurare l’efficacia delle campagne online, ad esempio, offre elevate potenzialità di sviluppo all’online advertising. Oggi gli advertiser, le agenzie e gli editori, infatti, devono sapere non solo quanti sono, ma anche chi sono gli individui raggiunti da una campagna pubblicitaria online. È proprio a questo scopo che Nielsen ha ideato Online Campaign Ratings, uno strumento ad hoc altamente innovativo, che dopo i buoni risultati conseguiti negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove è stato lanciato circa un anno e mezzo fa, è ora proposto anche in Italia, contemporaneamente a Canada, Germania e Australia. Al momento non possiamo aggiungere altro, perché abbiamo pensato a un palcoscenico di prestigio come quello de Linkontro per presentarlo ufficialmente. 

I servizi più richiesti a Nielsen
Nielsen fin dalla sua nascita è rimasta fedele alla mission di fornire ai propri clienti la soluzione più efficace per comprendere al meglio il consumatore, attraverso gli strumenti e i prodotti più innovativi in base all’evoluzione dei tempi. Mentre fino a qualche anno fa per le indagini di mercato ci si muoveva in un ambito statistico, servendosi di un campione di osservazione limitato per cogliere fenomeni allargati, oggi la quantità di dati è molto elevata. Le aziende clienti richiedono la nostra expertise per interpretare questa enorme mole di informazioni e farne una base affidabile e certa per definire le scelte operative. Nielsen continuerà  a rappresentare per le aziende il partner più competente per trasformare il potere del consumatore in valore per il marchio.

Le specificità italiane
Più che nel resto del mondo, in Italia continua a farsi sentire la crisi degli investimenti in comunicazione. Le aziende hanno quindi l’esigenza di comprendere al meglio e in tempi brevi le nuove sfide e le opportunità che si presentano. Le ricerche di mercato nel nostro Paese giocano quindi un ruolo chiave nell’interpretazione dei nuovi fenomeni. Un consumatore sempre più “frammentato” e sempre più informato spinge i responsabili marketing delle aziende a pensare a nuove forme di comunicazione, in grado di modificare nel modo desiderato le sue scelte di acquisto. Per quanto riguarda la comunicazione, per fare un solo esempio, non si tratta semplicemente di spostare gli investimenti da un media tradizionale a uno digitale, ma di implementare strategicamente la sinergia tra i diversi mezzi e creare quell’effetto leverage che rende l’investimento più efficace. Più in generale, ci troviamo di fronte a un consumatore che ha un potere mai avuto in precedenza, che nasce dai nuovi dati a disposizione e che si alimenta dalla concreta possibilità di influenzare altri consumatori. Le aziende non possono ignorare questo potere. Nielsen, dal canto suo, propone soluzioni che vanno proprio in questa direzione.

Linkontro 2013 
Linkontro è l’evento organizzato da Nielsen per e con la business community italiana, che riunisce oltre 500 esponenti del mondo dell’industria, della distribuzione e della comunicazione per confrontarsi in una tre giorni di workshop, dibattiti e incontri su temi di attualità, analizzare gli scenari, interpretare le tendenze dei mercati e dei segnali che ne anticipano il futuro. Linkontro nasce nel 1985 grazie alla fortunata intuizione di alcuni manager della grande distribuzione e dell’industria che immaginarono un incontro dedicato alla comune passione per lo sport e per il tennis in particolare, con l’obiettivo di individuare un modo informale per favorire il confronto tra i due mondi professionali. Con gli anni Linkontro si è aperto anche alle imprese dei servizi, dei media e delle nuove tecnologie. Dopo quasi trent’anni, l’evento continua a mantenere il suo spirito iniziale, garanzia di un successo di pubblico comune a tutte le edizioni. Linkontro è così diventato un appuntamento irrinunciabile: è qui che si ricercano le nuove strade della collaborazione, si intercettano i segnali del futuro prossimo e si studiano le strategie del successo in una tre giorni di incontri, di nuove conoscenze, di relazioni professionali di prestigio. Il valore del NOI, la nuova frontiera del cambiamento è il tema della 29° edizione de Linkontro (30 maggio – 2 giugno 2013), che quest’anno metterà a confronto le diverse esperienze per evidenziare come il valore della collaborazione possa tradursi in concrete opportunità di business per tutti e in che misura la creazione di network possa trasformare le sfide di mercato in concrete occasioni di crescita e di sviluppo.

Lo Spazio Eccellenza
L’innovazione è indubbiamente uno degli ingredienti necessari per uscire dalla crisi. E’ fondamentale per le aziende arricchire il processo di acquisto con nuove soluzioni sempre più appealing, senza dimenticare di accompagnare il cliente nella scelta finale. Lo Spazio Eccellenza nasce proprio per valorizzare ed esaltare l’impegno delle aziende nel competere con successo sui mercati e soddisfare le mutevoli esigenze dei consumatori, che sono i veri driver dell’innovazione.

Wednesday, July 30, 2014

Human rights fact finding: the overarching importance of impartiality

Conversations between Rob Grace (researcher and project coordinator for the Monitoring, Reporting, and Fact-finding project at Harvard University) and Salvatore Dimaggio about human rights fact finding

SD: It is important that the human rights facts are compiled according to clear, transparent and shared guidelines which ensure uniform standards, since they are used by international courts and institutions which have an impact on the lives of many people.
Today more than ever it is essential to aim for the highest possible impartiality in describing difficult situations. In this sense, the quality of the interviews has considerable weight on local populations: the living voice of the witnesses is a valuable source of direct information to be compiled, taking into account the specificities of the culture of the respondents.

RG: You are correct about the overarching importance of impartiality. The integrity of the investigation rests on the fact-finding team conducting its work in an impartial manner, meaning that the fact-finding team gathers information about all sides relevant to the context and evaluates the information gathered with objectivity. Impartiality is especially important because fact-finding practitioners regularly find themselves facing criticisms — sometimes very harsh critiques — of their work. It is, of course, a very sensitive and serious issue to publicly levy accusations about violations of international humanitarian law and human rights, so pushback against these accusations is common. One of the more typical critiques in this regard relates to impartiality. Governments, or other groups sympathetic to governments that have been accused by a fact-finding mission of violating international law, often charge that the mission was biased, either in its fact-finding methodology or in the manner that the team conducted its legal analysis. In this regard, an impartial methodology can be important to mitigating the extent to which the mission is vulnerable to criticism. 

Though, an impartial methodology is not a silver bullet. In my research conducted for the Program on Humanitarian Policy and Conflict Research at Harvard University, I have engaged with many fact-finding practitioners who have the perspective that many critiques of bias are politically motivated criticisms that lack merit. Essentially, there is a widespread perspective that being impartial does not necessarily shield one from the accusation of bias. And these issues of perception can very much affect how a fact-finding report is received and the overall impact of the mission.

One dilemma is that many of these mechanisms — fact-finding missions and commissions of inquiry, for example — come into being through a mandate that has been adopted by a government, or an inter-governmental body. One of course does not expect governments to be impartial. Rather, one expects governments to pursue their own interests. So fact-finding practitioners often find themselves in the position of having to convince certain members of the public that the biases of the mandating body need not necessarily translate into biases during the implementation of the mission.

SD: We are sorry that the NGOs have not found shared guidelines because, on the contrary, there are areas in which the NGOs themselves have achieved widely acclaimed and productive consensus. There have been specific emblematic cases in which rules of determination have been used, which can be taken as examples to reflect on the development of guidelines that are the reference for the future, such as:
Conflict Analysis Resource Center/University London study on Amnesty International and Human Rights Watch (Colombia, 1988-2004), United Nations Office of the High Commissioner for Human Rights Mapping Exercise on the Democratic Republic of Congo (1993-2003), the International Crisis Group (Kosovo, 1999), the Independent International Fact-Finding Mission on the Conflict in Georgia (Georgia, 2008).

RG: In relation to guidelines, through my research into the experiences and views of practitioners, I have discerned two overarching contrasting trends. On the one hand, human rights fact-finding practitioners, as well as others, have expressed a great deal of concern about the methodologies that certain missions have employed. There is a high level of vexation that practitioners have articulated that the legal analysis and witness protection measures, for example, of some past missions have not met expectations. On the other hand, practitioners have expressed concern about the restrictions that could come with instituting professional standards. One reason is that each context is sui generis, and it is difficult to devise guidelines that could be widely applicable across different contexts. Practitioners are caught in a paradox of desiring flexibility for themselves while also wanting some way to prevent unprofessional behavior. Similar challenges have been discussed in the humanitarian sector around the creation of Sphere Standards, for example. This tension between the competing desires for flexibility and restriction appears to be a common thread among professional sectors involved in responses to complex emergencies. The core challenge is how this domain can continue to professionalize itself in light of this normative obstacle.

SD: Unfortunately, the status of human rights violations is particularly dramatic with regards to childhood.
Over the past decade warfare has killed 2 million children, orphaned more than 1 million, have left 4 or 5 million disabled and left 12 million homeless.
40 million children under the age of 15 suffer from abuse and neglect.
More than 300,000 children are exploited as soldiers in armed conflicts around the world.
There are about 246 million children worldwide who are forced to work.

RG: It is particularly dramatic indeed. Regarding the response from fact-finders, one of the more innovative developments of the past decade, in terms of initiating new types of investigative mechanisms, has been the Monitoring and Reporting Mechanism mandated by the United Nations Security Council. This mechanism has been significant for drawing attention to violations against children in a wide array of contexts on an ongoing basis. In a sense, this mechanism has arisen as a result of the fact that the domain of monitoring, reporting, and fact-finding exists in an ad hoc state. There is no one overarching investigative mechanism tasked with fact-finding activities. Rather, we see many different mandating bodies creating a wide array of different types of investigative mechanisms. This creates a real challenge in terms of sharing best practices and lessons learned. However, one benefit of this state of affairs is that unique mechanism types can arise to fill certain voids or to highlight particular issues of concern. This is what has occurred with violations against children in the form of the Monitoring and Reporting Mechanism.